Il concordato preventivo “risana” l’azienda in crisi
Antonio ORILIA
Componente Consiglio Ordine dei Dottori Commercialisti di Salerno
a.orilia@commercialistisalerno.it
Le nuove norme che regolamentano l’istituto hanno reso più agevole l’accesso
alla procedura, senza tutelare però adeguatamente i creditori
In passato spesso
il concordato
preventivo
risultava
inefficace
perchè attivato con notevole ritardo
La nuova disciplina ha eliminato
tanto i requisiti
di meritevolezza
del debitore quanto la distinzione tra
creditori chirografi e creditori privilegiati
L'istituto del concordato preventivo, così come disciplinato fino al recente passato, è stato profondamente innovato pur se attraverso il ricorso a strumenti legislativi non sempre appropriati e, soprattutto, non sempre coordinati in maniera adeguata.
L'esigenza di una sua radicale trasformazione era stata avvertita da più parti atteso che esso, così come regolamentato, non esplicava piena efficacia in ordine al suo fine precipuo: il tentativo del risanamento aziendale.
Tale inefficacia la si poteva agevolmente riscontrare principalmente nel ritardo con cui le procedure venivano attivate - quando la crisi forse era divenuta irreversibile - e nella rigidità delle stesse in relazione alle percentuali minime di soddisfazione dei creditori. Le norme che attualmente regolamentano il concordato preventivo, pur nell'ottica dell'appena citato necessario rinnovamento dell'istituto, a mio sommesso parere, non hanno adeguatamente risolto la questione atteso che, se è pur vero che da un lato esse hanno reso più agevole l'accesso alla procedura, è altrettanto vero, dall'altro, che esse non hanno provveduto a tutelare adeguatamente i creditori.
Il primo elemento innovato rispetto alla previgente disciplina è il presupposto oggettivo per poter accedere alla procedura, rappresentato non più dallo stato di insolvenza, ma piuttosto dallo “stato di crisi” in cui versa l'imprenditore.
A tal riguardo appare di tutta evidenza la volontà del legislatore di voler concedere all'imprenditore in difficoltà la possibilità di porre rimedio ad una situazione difficile, ma non ancora divenuta irreversibile in relazione alla prosecuzione della attività aziendale.
Se questo è il nuovo presupposto per l'accesso alla procedura, sorge spontanea la domanda: ma quando può ritenersi che l'azienda versi in uno “stato di crisi” piuttosto che in uno “stato di insolvenza”?
Purtroppo l'attuale disciplina non offre alcuna definizione dello “stato di crisi” per cui, vista la assoluta necessità di un suo distinguo dallo “stato di insolvenza”, si rende indispensabile pervenire, quantomeno, ad una verosimile e ragionevole definizione del termine. Considerato che le norme che regolano il concordato preventivo dovrebbero essere rivolte all'auspicato risanamento aziendale, risulta agevole ritenere che la “crisi” debba necessariamente rappresentare la fase antecedente a quella della “insolvenza”, giacché, in tale ultima situazione, per l'azienda risulterebbe assai difficile attuare il reperimento di mezzi e misure idonei a scongiurare il fallimento.
Pertanto, tra le tantissime definizioni proposte, ritengo che quella maggiormente condivisibile sia quella suggerita da autorevole dottrina, secondo cui lo “stato di crisi” è verosimilmente quello in cui risultano sussistenti tanto lo stato di insolvenza vera e propria quanto situazioni immediatamente precedenti alla sua insorgenza che, pur non rappresentando una vera e propria insolvenza, potrebbero essere verosimilmente superate attraverso adeguati provvedimenti straordinari di ristrutturazione dei debiti.
L'iter procedurale per accedere alla procedura è stato reso molto più agevole per effetto della eliminazione sia dei requisiti di meritevolezza del debitore, sia della percentuale minima del 40% di soddisfazione dei creditori chirografari e sia della suddivisione dei crediti in classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei: per ognuna di dette classi sono previsti trattamenti differenziati, per cui la cosiddetta “par condicio creditorum” si renderà applicabile esclusivamente tra i creditori appartenenti alla stessa classe.
Con la suddivisione in classi omogenee dei creditori e la contemporanea riduzione della maggioranza richiesta per l'approvazione del concordato preventivo, di fatto, sì è reso molto più agevole il ricorso alla procedura atteso che, mentre secondo la previgente normativa esso veniva approvato col voto favorevole dei creditori votanti che rappresentassero i due terzi della totalità dei crediti ammessi al voto, col vigente art. 177 l.f. il concordato preventivo è approvato se riporta il voto favorevole della maggioranza dei crediti ammessi al voto e, nel caso dei creditori divisi in classi omogenee, della maggioranza dei crediti ammessi al voto in ciascuna delle classi medesime.
Tale nuova modalità di approvazione rende possibile l'accesso alla procedura anche per quelle proposte che, pur se prive del consenso di una o più classi di creditori, siano state approvate dalla maggioranza delle classi medesime a condizione, però, che il Tribunale ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.
La nuova disciplina, con la suddivisione dei creditori in classi omogenee, per un verso, ha reso più agevole l'accesso al concordato preventivo, ma per altro, con il disposto di cui alla lett. d) dell'art. 160 D.Lgs. 5/2006 ha previsto un trattamento differenziato tra i creditori appartenenti a classi diverse rendendo, di fatto, possibile anche il pagamento non integrale dei creditori privilegiati.
Infatti, contrariamente alla previgente normativa, l'art. 160 nella novellata formulazione non richiede il pagamento integrale dei creditori privilegiati, ma piuttosto prevede la possibilità di un differente trattamento dei creditori appartenenti a classi diverse, senza porre alcuna distinzione tra creditori chirografari e creditori privilegiati.
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