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  Dicembre 2012

Articoli n?06
Luglio 2012
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IL CAMBIAMENTO STRUTTURALE NELL'INDUSTRIA ITALIANA

ROMANO: «Vince chi investe in formazione e comunicazione»


IL CAMBIAMENTO STRUTTURALE NELL'INDUSTRIA ITALIANA

L'ESISTENZA DI VINCOLI ALLA POSSIBILITÀ DI RAGGIUNGERE I MERCATI IN MAGGIORE ESPANSIONE SEMPLICEMENTE ATTRAVERSO LE ESPORTAZIONI RENDE SEMPRE PIÙ NECESSARIA LA PRESENZA DIRETTA IN LOCO DEI PRODUTTORI, COSÌ CHE LE IMPRESE IN GRADO DI SOSTENERE LA COMPETIZIONE A LIVELLO INTERNAZIONALE PROGRAMMANO IL LORO SVILUPPO ALL'ESTERO


SI TRATTA DI UN DUALISMO TRA AZIENDE CHE NON È LEGATO A SPECIFICITÀ
"LOCALI". È INVECE SEMPRE PIÙ INTERNO ALLE DIVERSE PARTIZIONI NELLE QUALI È POSSIBILE
SUDDIVIDERE IL SISTEMA PRODUTTIVO

di Raffaella Venerando


FABRIZIO TRAÙ
Dirigente Centro Studi Confindustria


Dottor Traù, l'ultimo rapporto del Centro Studi Confindustria "Scenari Industriali" rileva la tenuta del manifatturiero italiano e le trasformazioni adattive che il comparto ha subito per resistere alla crisi.
Quali i principali cambiamenti?

Il baricentro della produzione mondiale si sta spostando verso i paesi emergenti (in particolare quelli dell'Asia orientale), a discapito degli Stati Uniti e, soprattutto, dell'Europa.
Lo spostamento ha condotto a una forte riallocazione dell'attività produttiva e della domanda di beni manufatti a livello globale.
Il graduale contrarsi delle quote di produzione e di esportazioni dei paesi già sviluppati (tra cui l'Italia) deve essere considerato in questo quadro del tutto fisiologico, perché riflette semplicemente l'ingresso nel mondo manifatturiero dei molti (e colossali) nuovi sistemi economici che stanno uscendo dal sottosviluppo. E d'altra parte l'industria italiana sta facendo relativamente meglio di quelle di altri blasonati paesi industrializzati, e soltanto una crisi di durata e dimensioni eccezionali ne ha compromesso il ritmo di crescita. Anche in un contesto così difficile l'industria nazionale ha mostrato elementi di dinamismo, ed è riuscita a modificare vistosamente lo spettro delle produzioni esportate, accrescendo fortemente la quota coperta dalle produzioni meccaniche e chimiche, e ridimensionando fortemente quella relativa alle produzioni del made in Italy più tradizionale.
Sul piano strutturale il primo decennio Duemila ha visto cambiamenti importanti non solo nella composizione delle produzioni presidiate ma anche nelle modalità (nella logica) dell'organizzazione produttiva. Sotto questo profilo il primo fenomeno da evidenziare è l'arresto del processo di divisione del lavoro tra le imprese attraverso il mercato, che in precedenza, e per un'intera fase dello sviluppo industriale, aveva visto costantemente contrarsi il grado medio di integrazione verticale del sistema. Il tempo della frammentazione produttiva è finito. Nelle diverse industrie lo spessore dei mercati intermedi sembra avere raggiunto una consistenza ottimale, nel senso che il volume degli scambi di mercato in rapporto alla creazione di valore aggiunto appare ormai stabile nell'intorno di un valore definito. È invece in costante ascesa la dimensione media delle imprese espressa in termini di valore aggiunto, che in poco più di dieci anni (e quantomeno fino al sopraggiungere della crisi) aumenta del 20% a prezzi costanti. Si può dunque dire che la divisione del lavoro sul mercato ha smesso di comportare anche una ulteriore frammentazione in senso verticale della produzione e risulta semmai associata a un consolidamento dimensionale delle imprese già attive, confermando l'esistenza di un cambiamento di direzione – una inversione di segno – del "modello" di industrializzazione. L'intensità del processo che ha visto assottigliarsi i tassi di entrata e, soprattutto, accrescersi vistosamente quelli di uscita è stata tale da modificare lo stesso assetto strutturale del sistema industriale. Su questo processo si è innescata la recessione, che ha comportato tra il 2007 e il 2009 una compressione del livello dell'occupazione manifatturiera dell'ordine delle 286mila unità (-6,4%).
Nella prospettiva del cambiamento strutturale, a questa compressione corrisponde un aumento solo marginale della dimensione media – espressa in termini di occupati – delle stesse imprese. Ma il modello di industrializzazione mostra comunque una discontinuità molto marcata: la fase in cui l'espansione della base industriale si era realizzata per addizione di nuove (piccole) unità produttive mostra di avere ceduto il passo a una fase in cui si espande la scala produttiva delle imprese che già esistono, e il loro numero si contrae.
Da questo punto di vista va comunque sottolineato che la contrazione dei livelli di occupazione in patria riflette anche un cambiamento radicale della logica dello sviluppo industriale, che è sempre più costituito da una multinazionalizzazione di massa (che non ha nulla a che vedere con l'esistenza di processi di de-localizzazione, ossia di sostituzione di attività prima svolte in patria).
Questo fenomeno rappresenta la vera discontinuità dello sviluppo industriale contemporaneo.
La dimensione globale dei mercati comporta infatti per definizione che le imprese debbano impostare le loro politiche di sviluppo in funzione delle opportunità di domanda che caratterizzano le diverse aree del mondo; i cui tassi di crescita mostrano ormai – specie in termini prospettici – differenze formidabili.
L'esistenza di vincoli spesso rilevanti alla possibilità di raggiungere i mercati in maggiore espansione semplicemente attraverso le esportazioni rende sempre più necessaria la presenza diretta in loco dei produttori, così che le imprese in grado di sostenere la competizione a livello internazionale programmano il loro sviluppo all'estero – che vuol dire spesso in altri continenti.


Sempre nello studio emerge che il segreto delle imprese vincenti è la capacità di adattarsi al cambiamento trasformando i propri modelli di business…
Sì, nonostante la crisi, le imprese che riescono a gestire il cambiamento hanno seguitato a svilupparsi, o comunque a sostenere il confronto col mercato, comprese molte di quelle più piccole, che hanno saputo andare in controtendenza passando a modelli di business più complessi di quelli di prima (dimostrando che la competitività non dipende dalla scala, ma dal modello di comportamento dell'impresa).
Il punto è che la risposta non è uniforme; e i risultati ottenuti non sono omogenei. I risultati di una vasta indagine sul campo realizzata dal CSC, una cui sintesi è stata pubblicata nella precedente edizione di Scenari Industriali, hanno evidenziato a questo riguardo l'indubbia capacità di uno strato non marginale di imprese manifatturiere di affrontare e risolvere i problemi legati al cambiamento proattivamente e con successo.


Il quadro imprenditoriale emerso però non è affatto uniforme tanto che, nell'indagine, si parla di dualismo tra aziende che vogliono reagire mirando allo sviluppo e altre che, invece, si limitano alla resistenza.
Quali elementi e caratteristiche fanno la differenza?

Il rapporto del CSC di Confindustria dimostra come la popolazione delle imprese italiane sia fatta anche da chi è in difficoltà, e vede accrescersi la distanza che lo separa dai primi: questo dato implica che si stanno delineando le premesse di un nuovo dualismo, tanto più acuto in quanto all'emergere di differenze di comportamento tra le imprese in ragione della loro diversa capacità di affrontare il "cambiamento strutturale" si è sovrapposto l'impatto di una gelata che sta durando un tempo più lungo di quello della crisi del '29.
Si tratta di un dualismo che non è legato (o comunque non solo), come in passato, a specificità "locali" (territorio, ambito settoriale, scala dimensionale): è invece sempre più interno alle diverse partizioni (alle singole "celle", intese in senso statistico) nelle quali è possibile suddividere il sistema produttivo.
Ed è anche in ragione di questa disomogeneità di comportamento osservabile all'interno del sistema produttivo che il suo riposizionamento (geografico, settoriale) – di cui si è dato conto nel primo capitolo del rapporto – appare, per quanto bene individuabile, sempre relativamente lento.
È per questa ragione che il CSC ha concentrato la sua attenzione, nell'edizione di quest'anno di Scenari Industriali, sui divari di performance che caratterizzano le imprese italiane della manifattura, su come questi divari si siano articolati nel tempo, e su quali siano le caratteristiche strutturali di impresa cui essi risultano associati. I risultati presentati devono essere considerati ancora del tutto preliminari (l'analisi è appena stata avviata, e gli aspetti fin qui esplorati costituiscono soltanto un sottoinsieme di quelli previsti dal programma di ricerca), ma l'evidenza raccolta offre già a questo stadio un quadro piuttosto nitido del profilo del fenomeno, e permette di individuare alcune questioni importanti.
Le indicazioni che ne emergono mostrano in particolare l'esistenza di una forte differenziazione dei comportamenti tra le imprese che crescono e quelle che si contraggono.
Le prime aumentano in media il grado di integrazione verticale, accrescono le esportazioni e la loro quota sul totale del fatturato, ottengono risultati relativamente migliori in termini di redditività. Per gli stessi indicatori la contrazione delle attività comporta invece un peggioramento evidente.
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