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  Dicembre 2012

Articoli n?06
Luglio 2012
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LA CINA IN AFRICA
Quando il rispetto delle regole si fa eventuale



IL CONTINENTE AFRICANO È UN MERCATO SEMPRE PIÙ IMPORTANTE A LIVELLO MONDIALE.
MA LE IMPRESE EUROPEE , E SOPRATTUTTO QUELLE ITALIANE , DEVONO FARE I CONTI AD ARMI IMPARI CON LA CONCORRENZA CINESE.
PER QUESTO CONFINDUSTRIA ASSAFRICA & MEDITERRANEO ACCENDE I RIFLETTORI SUI COMPORTAMENTI DELLA CINA IN AFRICA


a cura di Ely Szajkowicz, Responsabile Informazione e Comunicazione Assafrica&Mediterraneo-Confindustria

GIOVANNANGELO MONTECCHI PALAZZI
Presidente Comitato Scientifico Confindustria Assafrica&Mediterraneo


Il comportamento della Cina in Africa è l'esempio estremo di un modo di impostare le relazioni economiche internazionali profondamente diverso dal modello "liberale" che ispira l'azione dei Governi dei maggiori Paesi occidentali, fondato sulla liberalizzazione del commercio internazionale e dei movimenti di capitali, nonché su un insieme di accordi volti a stabilire norme di comportamento uguali per tutti ("a level playing field") o, quantomeno, di reciprocità.
Per contro la Cina agisce secondo un modello "opportunista" che consiste nello sfruttare i vantaggi e le aperture commerciali che le derivano dall'essere stata accolta a far parte di organismi quali WTO, FMI e Banca Mondiale, ma nel non rispettarne sostanzialmente le regole. Il pensiero corre in primo luogo ai prezzi stracciati delle sue esportazioni consentiti dal "dumping sociale", una forma di "dumping" non prevista dagli accordi WTO e, quindi, non sanzionabile.
E, subito dopo questa "non sostenibilità sociale", la nostra sensibilità occidentale ci porta a deprecare la non sostenibilità ambientale del modello cinese.
Ad esempio, la Cina, ormai primo produttore mondiale di gas a effetto serra, diversamente dai Paesi occidentali non ha ancora assunto alcun impegno di riduzione delle sue emissioni ai sensi del Protocollo di Kyoto.
Ma la sfida opportunistica cinese opera anche su molti altri piani concomitanti. Il primo per importanza è la cronica sottovalutazione dello yuan che, favorendo le esportazioni e rincarando le importazioni, ha contribuito agli imponenti surplus della bilancia commerciale cinese e all'accumulo di circa 3.000 miliardi di dollari di riserve valutarie.
Accumulo cui non sono neppure estranei la mancata liberalizzazione del mercato del credito e gli alti tassi d'interesse ufficiali della Bank of China (ora 6,31%). Altri elementi sono: - il mancato rispetto della proprietà intellettuale, di cui l'Italia è tra le prime vittime, mal compresa e mal difesa dalla Commissione europea, come dimostra la vicenda del "Made in Italy"; - il mancato rispetto delle norme WTO che vietano i sussidi di Stato, agevolato dalle difficoltà di prova e dalla farraginosità delle procedure, come dimostrano i ben pochi ricorsi avviati e conclusi favorevolmente; - l'inesistenza di norme che sanzionino la corruzione di pubblici funzionari all'estero Norme che i Paesi aderenti all'OCSE si sono dati da tempo, l'Italia mediante l'art. 322 del Codice Penale.
Anche in questo caso dimostrare la corruzione ed ottenere ristoro del danno da Tribunali di Paesi terzi a scapito di entità locali è arduo se non impossibile; - la mancata reciprocità nell'accesso ai pubblici appalti cinesi.
La Cina non aderisce al GPA-General Procurement Agreement, accordo volontario in ambito WTO promosso dalla Commissione europea, eppure, paradossalmente, le sue imprese hanno libero accesso all'85% del mercato dei pubblici appalti della UE, stimato in 352 miliardi.
Per contro le imprese europee per concorrere alla quota "contestabile" del corrispondente mercato cinese, stimata in 87 miliardi di euro (2,5% del PIL), debbono sottostare a vincoli pesanti (costituire società miste, produrre in loco, trasferire tecnologie proprietarie).
Solo ora la Commissione sta cercando di introdurre un blando regolamento sulla reciprocità; - non aderendo all'OCSE la Cina non è neppure tenuta a rispettare le regole sugli aiuti pubblici ai PVS, regole che impongono lo "slegamento" da esportazioni nazionali, una componente di liberalità non inferiore al 25%, il ricorso a gare, il divieto (con poche eccezioni) di sostenere progetti "commercially viable", gli stessi criteri ambientali dei Paesi più avanzati nonché procedure informative atte a garantire la trasparenza e la possibilità di "matching".
La Cina non solo ignora tali regole, ma utilizzando, ove interessata, finanziamenti che potremmo chiamare di "simil-aiuto" (crediti misti composti da crediti commerciali associati a crediti di aiuto o a doni, crediti particolarmente agevolati), fa una concorrenza sleale anche ai normali crediti commerciali all'esportazione, in ciò avvantaggiata dal "war chest" (tesoro di guerra) dei suoi 3.000 miliardi di dollari di riserve; - da ultimo, ma non ultima, la disponibilità della Cina "Paese-perno dell'antidemocrazia", per usare l'espressione della rivista "Limes" a corteggiare, se utile, anche i regimi più autoritari e cleptocratici.
L'Africa è l'area del mondo in cui il modello opportunista cinese si è manifestato nel modo più smaccato e ha colto i maggiori successi.
Indubbiamente la penetrazione cinese in Africa è stata favorita anche da evidenti fattori di complementarietà e da affinità dirigistiche con altri Paesi governati da partiti unici L'Africa, infatti, è grande produttrice attuale, e ancor più potenziale, di materie prime di cui la Cina negli ultimi anni è diventata forte consumatrice contribuendo in modo determinante all'aumento della domanda globale.
L'Africa ha anche notevolissime carenze infrastrutturali trascurate sia dagli aiuti occidentali, che privilegiano gli interventi di stampo umanitario, che dai crediti all'esportazione e commerciali per ragioni di rischio percepito e per i limiti imposti dal FMI ai Paesi insolventi nei confronti del "Club di Parigi" o giudicati troppo indebitati.
Per contro la Cina è perfettamente in grado di fornire non solo infrastrutture di base relativamente semplici quali strade, ferrovie o centrali elettriche o sofisticate come le telecomunicazioni, ma anche di ignorare le indicazioni del FMI.
Inoltre l'economia a controllo centralizzato della Cina ha incontrato nei Governi africani espressione di partiti unici, tendenzialmente dirigisti in materia economica, "partners" ideali per la stipula di accordi intergovernativi detti "modello Angola" con riferimento ad un prestito di 2 miliardi di dollari concesso all'Angola nel 2004 per la realizzazione di infrastrutture contro l'impegno a fornire 10.000 barili di petrolio al giorno. In realtà più che di un prestito si trattava di un accordo di "countertrade" dal momento che le ditte costruttrici erano pagate in Cina dal Governo cinese. Non si può, tuttavia, non rimarcare che allora l'Angola era insolvente nei confronti della comunità finanziaria internazionale e il FMI vietava la concessione di nuovi prestiti al suo Governo.
Il "modello Angola" è stato ripetuto in numerosi Paesi africani e, insieme ai crediti agevolati "simil-aiuto", ha prodotto direttamente o contribuito a produrre risultati spettacolari: dal 2001 al 2009 la percentuale delle infrastrutture aggiudicate in Africa a ditte cinesi è passata dal 7,4% al 36,6% (contro il 15% dell'Italia ed il 10% della Francia).
E gli accordi intergovernativi hanno probabilmente svolto il ruolo di efficaci strumenti di penetrazione commerciale perché ora la metà circa dei contratti vinti da ditte cinesi lo sono a seguito di gare internazionali finanziate in larga misura da fonti occidentali, ad esempio dalla Banca Mondiale di cui la Cina è membro.
Parimenti ha contribuito a che l'interscambio commerciale Africa-Cina passasse da 10 miliardi nel 2000 a 125 miliardi nel 2010 (contro i 115 degli USA, i 66 della Francia, i 31 del Regno Unito).
Il "modello Angola" è stato favorito dalle particolarità dell'Africa e non è facilmente replicabile nei PVS asiatici e latinoamericani, anche se non sono mancati approcci in tal senso.
Tuttavia non vi è quasi azienda di un certo rilievo che, sul mercato UE o su quelli extraeuropei, non si sia scontrata con alcune delle forme di concorrenza sleale sopra indicate.
Se il fenomeno non ha avuto il risalto che merita ciò è dovuto al fatto, ormai ammesso da fonti autorevoli, che il Governo di Pechino sarebbe solito minacciare di ritorsioni le aziende straniere al fine di costringerle a non denunciare tali pratiche illegali per non correre il rischio di essere escluse dal terzo mercato di esportazione al mondo.
Come reagire in modo da evitare che la Cina, da un lato, si avvantaggi delle norme del "level playing field" occidentale quando le viene utile e, dall'altro, le violi smaccatamente quando le conviene?
La minaccia di ritorsioni esclude la possibilità di azione da parte di singole aziende e anche di Stati di medie dimensioni come l'Italia. Le azioni difensive, tecnico-legali (controlli doganali, verifiche di qualità, ricorsi al WTO) e politiche (dazi punitivi), possono, quindi, essere promosse soltanto da attori di peso come gli USA o l'UE. Ma a proposito della UE duole sottolineare la debolezza finora dimostrata dalla Commissione che, pure, sovraintende il principale mercato mondiale.
Occorrerebbe, poi, non essere ingenuamente prigionieri dei "mantra" del liberismo ad oltranza, che sono sicuramente validi in via generale e anche lodevoli quando si tratti di preferenze concesse a Paesi meno avanzati, ma controproducenti quando si ha a che fare con la Cina se non accompagnati dal rigoroso rispetto delle regole.
Invocare il rispetto delle regole, in primo luogo del WTO e del FMI, e dei criteri di reciprocità non è affatto invocare un ritorno al protezionismo.
É ribadire i fondamenti stessi del liberoscambismo. Anzi, non difenderli equivarrebbe a tradirli. Infine, occorrerebbe anche domandarsi se l'ambizione normativa globale dei Paesi occidentali - che si esplica in mille modi, dal campo ambientale alle norme OCSE sugli aiuti ai PVS e sui finanziamenti all'esportazione - non sia diventata troppo pretenziosa ed onerosa e se, quindi, non sia il caso di darsi norme meno complesse e assumere comportamenti più pragmatici.



NON ADERENDO ALL'OCSE LA CINA NON È NEPPURE TENUTA A RISPETTARE LE REGOLE SUGLI AIUTI PUBBLICI AI PVS, REGOLE CHE IMPONGONO LO "SLEGAMENTO" DAESPORTAZIONI NAZIONALI, UNA COMPONENTE DI LIBERALITÀ NON INFERIORE AL 25%, IL RICORSO A GARE, IL DIVIETO (CON POCHE ECCEZIONI) DI SOSTENERE PROGETTI "COMMERCIALLY VIABLE", GLI STESSI CRITERI AMBIENTALI DEI PAESI PIÙ AVANZATI NONCHÉ PROCEDURE INFORMATIVE ATTE A GARANTIRE LA TRASPARENZA E LA POSSIBILITÀ DI "MATCHING". LA CINA NON SOLO IGNORA TALI REGOLE, MA UTILIZZANDO, OVE INTERESSATA, INANZIAMENTI CHE POTREMMO CHIAMARE DI "SIMIL-AIUTO" (CREDITI MISTI COMPOSTI DA CREDITI COMMERCIALI ASSOCIATI A CREDITI DI AIUTO O A DONI, CREDITIPARTICOLARMENTE AGEVOLATI), FA UNA CONCORRENZA SLEALE ANCHE AI NORMALICREDITI COMMERCIALI ALL'ESPORTAZIONE, IN CIÒ AVVANTAGGIATA DAL "WAR CHEST" (TESORO DI GUERRA) DEI SUOI 3.000 MILIARDI DI DOLLARI DI RISERVE. ANCHE AI NORMALI CREDITI COMMERCIALI ALL'ESPORTAZIONE, IN CIÒ AVVANTAGGIATA DAL "WAR CHEST" DEI SUOI 3.000 MILIARDI DI DOLLARI DI RISERVE

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