VIESTI: «La tendenza italiana ad intervenire solo sulla stabilitÀ dei conti pubblici rischia di essere suicida»
RIFORMA DEL FISCO: obiettivo non piÙ rinviabile
VIESTI: «La tendenza italiana ad intervenire solo sulla stabilitÀ dei conti pubblici rischia di essere suicida»
di Raffaella Venerando
Indispensabili tanto la stabilità, quanto la crescita: se c'è l'una senza l'altra le prospettive economiche della società europea e italiana sono molto preoccupanti
«Bisogna riconoscere il grave errore commesso nell'eliminare una parte di tassazione giusta come quella Ici prima casa per le fasce più abbienti. È del tutto immotivato che vangano tolte risorse all'Italia che produce per concedere un bonus in più all'Italia delle rendite»
Gianfranco Viesti, Economista
Professor Viesti, a leggere dati e previsioni non sembrerebbe scongiurata la crisi economica per il nostro Paese. La recessione pare avere subito una battuta d'arresto ma la crisi resiste. Quali potrebbero essere i suoi "cinque punti" per uscire dalle secche?
Primo: favorire la nascita di imprese nuove, che producano beni e servizi, sia per la domanda interna che per quella estera; secondo: spingere il più possibile per la crescita delle imprese eccellenti sui mercati internazionali perché è lì che la domanda c'è, sui mercati grandi, lontani e difficili dove le nostre aziende sono tuttora poco presenti; terzo: agevolare il più possibile - a parità di produzione - la domanda di lavoro con strumenti di incentivazione alle assunzioni a tempo indeterminato soprattutto di giovani ad alta qualifica. Occorre farlo perché si tratta di una misura che serve ai giovani e serve alle imprese; quarto: un programma di intervento che concentri le risorse in opere pubbliche utili ma piccole, cioè veloci da mettere in campo, sul modello di quanto fatto in Spagna; quinto, e ultimo punto: fare sforzi aggiuntivi - e non riduzionisti come fatto finora - per sostenere la filiera istruzione, ricerca e innovazione perché è solo da questa che possono venire i contributi alla ripresa più rilevanti.
"No" al Ponte sullo Stretto quindi?
Non credo sia un'opera inutile, ma senz'altro nella situazione attuale sarebbe molto meglio destinare risorse verso altre realizzazioni, che possono avere un impatto meno modesto e un costo meno elevato.
Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia, di recente ha dichiarato che l'obiettivo deve essere «coniugare la crescita con l'austerità di bilancio».
Rigore e crescita possono andare di pari passo?
Draghi si conferma un uomo estremamente saggio che, pur con la cautela indispensabile a un governatore centrale, non manca di sottolineare il punto chiave delle moderne strategie anticrisi: la tendenza europea, ma anche italiana, ad intervenire esclusivamente sulla stabilità dei conti pubblici rischia di essere suicida perché se non c'è crescita la stabilità dei conti pubblici diventa molto più difficile. Sono indispensabili tanto la stabilità, quanto la crescita: se c'è l'una senza l'altra, le prospettive dell'economia e della società europea e italiana sono molto preoccupanti.
Secondo lei Giulio Tremonti è più un ministro del bilancio o dell'economia?
Credo possa essere definito come un ministro dei tagli, orizzontali e senza un particolare criterio apparente. L'unico forse che si può desumere è che i tagli si concentrano in particolare sui servizi pubblici nazionali a utilizzazione più vasta, ma è un tipo di interventi a mio avviso molto negativi sia come segno, sia nel loro contenuto.
Declino industriale: una prospettiva reale?
Piano con gli allarmismi e con il gridare che il Made in Italy è a fine corsa. Sia Bankitalia, sia altri enti accreditati ci hanno detto che negli anni 2006 e 2007 molte nostre imprese avevano avviato processi di ristrutturazione e riorganizzazione che le avevano portate ad aumentare la produzione. Sappiamo che questa crisi è molto selettiva e se in media le cose vanno male, fortunatamente quella fascia di imprese innovative resiste e continua bene. Il rischio reale però è che continuiamo a perdere dei pezzi di industria non più competitiva che ancora non siamo capaci di sostituirla con dei pezzi nuovi. Una contrazione dell'apparato industriale quindi potrebbe esserci e sarebbe molto negativa per il Paese perché l'industria manifatturiera, come ci mostra la Germania, rimane un elemento essenziale di un'economia avanzata.
Quindi come si recupera il terreno perduto in competitività? Guardare alla Germania può esserci di aiuto?
La Germania ci fornisce un esempio molto interessante. Attraverso un patto sociale molto forte, si è riusciti a equilibrare i redditi dei lavoratori con la produttività delle imprese. In quel caso, ovviamente hanno contato anche la serietà del Paese, il buon funzionamento dei servizi, il lavoro efficiente delle amministrazioni che, sommati allo spirito di nazione, hanno permesso il rilancio. Vero è che queste condizioni psicologiche da noi mancano quasi del tutto. Non si tratta infatti di singole misure più o meno valide, ma di uno scoramento complessivo nel nostro Paese che si contrappone a un orgoglioso rilancio che invece si registra in Germania.
I tempi sono maturi per una seria riforma fiscale?
La riforma fiscale va fatta e al più presto possibile. Oggi il lavoro ha un costo eccessivo per le imprese e lascia, al contempo, troppo poco in tasca ai lavoratori a causa del carico fiscale, spostatosi tutto sul lavoro dipendente. Naturalmente quando le cose, come attualmente è per il nostro Paese, non vanno bene per i conti pubblici, bisogna mettere mano a dei correttivi progressivi che io individuerei in tre ambiti. Primo: riconoscere il gravissimo errore commesso nell'eliminare una parte di tassazione giusta e indispensabile come quella Ici prima casa per le fasce più abbienti. È del tutto immotivato, infatti, che vengano tolte risorse all'Italia che produce per
concedere un bonus in più all'Italia delle rendite. Secondo: bisogna intervenire più coraggiosamente sulla tassazione delle rendite finanziarie in generale e, terzo e ultimo, occorre dare una secca sferzata alla guerra all'evasione perché diventi una lotta sistematica. Pur essendo apprezzabile la reintroduzione da parte dell'Esecutivo di alcune misure - le stesse che sempre il Governo Berlusconi nel 2008 aveva cancellato - bisogna riconoscere che da sole non sono sufficienti. A queste ne vanno affiancate delle altre: il punto è capire che se riprendiamo il 10% di evasione, recuperiamo almeno 12 miliardi di euro l'anno. Mi sembrano cifre non trascurabili anche tenuto conto del fatto che come dimostrato dalle analisi del Centro Studi Confindustria - proprio in momenti di crisi economica, aumentano le sacche di evasione e di sommerso.
Un'ultima domanda: federalismo fiscale. Chi ci guadagna e chi ci rimette?
Al momento non è chiaro quel che accadrà anche perchè la legge 42 è complessa e in parte contraddittoria. Dal contenuto dei primi decreti attuativi però il rischio che il Sud possa rimetterci esiste, al di là di una giusta distribuzione delle risorse. Prendiamo ad esempio il meccanismo bizzarro delle perequazioni sul finan-
ziamento dei Comuni, o quello presente nel decreto sulla sanità: nel decreto ultimo i costi standard sono una figura retorica perché quale che sia il livello che ne fissiamo, il riparto tra le Regioni è sempre lo stesso. Così come è stato congegnato il federalismo fiscale porta solo acqua al mulino di chi pensa che l'unico scopo di questa operazione è una ridistribuzione delle risorse da Sud a Nord. D'altra parte è quello che chiede il partito più forte della coalizione di governo da dieci anni e che finalmente potrebbe vedere esaudite le sue rivendicazioni. L'aspetto che più mi preoccupa dell'attuazione del federalismo fiscale è il dover constatare che, mentre vi sono lecitamente dei portatori di interesse perché vi sia uno spostamento di risorse da Sud al Nord, non ve ne sono altri che si impegnino altrettanto nella direzione contraria e addirittura nessuno che badi ad ottenere un risultato finale che sia equo su tutto il territorio nazionale. Il Sud in questa partita gioca esclusivamente in difesa e con una "barriera" assolutamente di fortuna.
A questo punto viene naturale chiedersi: ma al Sud ci sono portatori di interesse che siano diffusi e non particolaristici?
Quello che manca al Sud è una coalizione di interessi, fatta di amministratori, cittadini e imprenditori, che dia voce a tutti quegli interessi non rappresentati dalla politica. Il timore per le imprese, restando in tema di federalismo fiscale, è evidente: un fortissimo aumento della pressione fiscale possibile nei prossimi anni perché di sicuro in alcune regioni tutte a Sud la pressione fiscale non potrà che aumentare, a cominciare dalla Campania. Così rischiamo di fare una fiscalità di vantaggio al contrario e di certo non è di questo che ha bisogno il Mezzogiorno per ripartire.
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