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  Dicembre 2012

Articoli n° 09
NOVEMBRE 2010
 
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VIESTI: «La tendenza italiana ad intervenire solo sulla stabilitÀ dei conti pubblici rischia di essere suicida»

RIFORMA DEL FISCO: obiettivo non piÙ rinviabile


RIFORMA DEL FISCO: obiettivo non piÙ rinviabile

di Raffaella Venerando


La progressività del nostro sistema tributario è bassa rispetto ad altri paesi avanzati. Bisogna ridurre soprattutto l'incidenza delle imposte che gravano sul lavoro

Giuseppe Ciccarone, Economista

Professore, a leggere dati e previsioni non sembrerebbe scongiurata del tutto la crisi economica per il nostro Paese. La recessione pare avere subito una battuta d'arresto ma la crisi resiste. Come si esce dalle secche? Quali potrebbero essere i suoi "cinque punti"?
Preferisco trascurare alcune criticità condivise del nostro sistema produttivo (le infrastrutture insufficienti, la lentezza del sistema giudiziario, ecc.), per concentrarmi su questioni controverse e proporre cinque punti collegati tra loro.

1. La crescita della produttività del lavoro è troppo bassa. La sua dinamica dipende sia dall'impegno dei lavoratori, sia dalle scelte di investimento, soprattutto di tipo innovativo. In Italia, la diminuzione del prezzo relativo del lavoro rispetto al capitale, frutto delle modificazioni occorse nel mercato del lavoro, ha favorito la riduzione del tasso di crescita della dotazione di capitale innovativo per addetto, che è diventato negativo a partire dal 2003. I bassi investimenti in innovazione e ricerca hanno frenato lo spostamento dei fattori produttivi verso i settori in espansione; molte imprese sono rimaste in quelli tradizionali ad alta intensità di lavoro, esposti alla concorrenza proveniente dai paesi a basso costo unitario del lavoro. La bassa crescita della produttività ha fatto aumentare questo costo di 5 punti percentuali nel presente decennio, a fronte di una crescita dei salari simile a quella della Germania.

2. Propongo da tempo di modificare la contrattazione salariale in modo di legare la dinamica del salario a un "tasso programmato", o contrattato, di crescita della produttività, per favorire il suo aumento attraverso gli investimenti di tipo innovativo.

3. Il mercato non domanda lavoratori con istruzione superiore: secondo l'ISTAT, il 15% dei laureati con più di 40 anni e il 40% dei diplomati ritengono di possedere un'istruzione eccessiva; la laurea è richiesta soltanto per il 5% dei posti di lavoro offerti dalle imprese con meno di 10 addetti, che rappresentano una quota rilevante del totale. Il sistema dell'istruzione deve elevare l'offerta di imprenditorialità, per consentire alle imprese di crescere, investire in ricerca e tecnologia, entrare nei settori in espansione. Ciò aumen-
terà la domanda di lavoro qualificato e di formazione superiore, alla quale dovremo rispondere dando risorse alla scuola e all'università.

4. Per modificare la composizione della produzione si devono garantire incentivi fiscali alle imprese che crescono e migrano nei settori a più alto valore aggiunto, creare fondi pubblici di garanzia al credito per l'investimento innovativo, ripensare la ricerca pubblica e il sostegno a quella privata.

5. Bisogna discutere la possibilità che accordi decentrati stabiliscano parti dell'organizzazione del lavoro, come i tempi di lavoro, e permettano "clausole di tregua" sugli scioperi vincolanti per tutti i lavoratori. Dobbiamo ricercare un nuovo equilibrio attraverso uno scambio tra riduzione del dualismo nel mercato del lavoro e più ampi gradi di autonomia della contrattazione decentrata, per conciliare i diritti dei lavoratori con le nuove esigenze della competizione globale.

Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia, di recente ha dichiarato che l'obiettivo deve essere «coniugare la crescita con l'austerità di bilancio». Cosa ne pensa? È possibile che rigore e crescita vadano di pari passo?
Riuscire a coniugare rigore e crescita è una necessità. Il debito elevato toglie armi alle politiche anticicliche; espone alla speculazione internazionale; impone tassi di interesse elevati. La crisi economica, insieme a una politica di bilancio non sempre condivisibile, ha portato a una situazione peggiore di quella di 13 anni fa. Secondo il FMI, nel 2010 il rapporto debito/PIL sarà pari a 118.4, tendente a 119.7 negli anni successivi; nel 1997 era pari a 118.1. Il PIL continuerà a essere minore di quello del 2007 per diversi anni e sarà necessario ridurre anche il debito, razionalizzando la spesa e riducendo l'evasione fiscale. Per stimolare al contempo la crescita del PIL, bisogna cominciare dalle riforme "a costo zero", come quelle sulla contrattazione esposte sopra. In base ai nuovi accordi europei, la valutazione del debito terrà conto della competitività. Anche per questo è rilevante la produttività che, insieme al tasso di occupazione e alla quota della popolazione in età da lavoro, determina il reddito pro-capite, la cui caduta del 4.1% tra il 2000 e il 2009 è preoccupante perché riduce le possibilità di risparmio future e dunque la sostenibilità del debito.

L'Italia è un paese tradizionalmente manifatturiero. È concreto il pericolo di deindustrializzazione secondo lei?
La concorrenza internazionale chiede innovazione, riorganizzazione dei luoghi di lavoro, miglior posizionamento sui mercati. La nostra risposta a questa sfida è stata schizofrenica. Un certo numero di imprese (soprattutto medio-grandi) ha saputo ristrutturarsi e, puntando sul miglioramento qualitativo dei prodotti, ha aumentato i valori medi unitari delle esportazioni. Per quanto detto sopra, chi è sfuggito a questa concorrenza, soprattutto le imprese di minori dimensioni, è rimasto nei settori tradizionali, imboccando la strada del declino e della riduzione del tasso di crescita della produttività e del prodotto. Per scongiurare il pericolo di deindustrializzazione motivo sono indispensabili le riforme indicate sopra.

Come si recupera il terreno perduto in competitività?
L'Italia può seguire le orme della Germania?

Si sostiene spesso che i "contratti tedeschi" e le riforme attuate in Germania a partire dal 2003 abbiano favorito il miglioramento competitivo dell'industria. Io pongo questa domanda: perché la maggiore flessibilità del mercato del lavoro ha consentito ciò in Germania ma non in Italia? La risposta a questa domanda richiede una analisi comparativa della struttura industriale; qui osservo solo che dal 2003 al 2007 il tasso di crescita della dotazione di capitale innovativo per addetto cresce in Germania ad un tasso medio del 3,2%, mentre diminuisce in Italia dell0 0,8%. Ciò conferma la bontà delle proposte avanzate sopra, perché le modificazioni salariali migliorano la competitività solo se incentivano l'innovazione, la riorganizzazione dei luoghi di lavoro e l'accumulazione di capitale innovativo.

La riforma fiscale va fatta ora? Come si recupera l'evasione fiscale?
La riforma fiscale è indispensabile. La progressività del nostro sistema tributario è bassa rispetto ad altri paesi avanzati; l'imposta sui redditi delle persone fisiche grava sul lavoro dipendente e i pensiona; il suo grado di progressività è ridotto dall'ampia evasione. La tassazione patrimoniale vede un trattamento di favore riservato ai redditi da interessi, incentivando la rendita rispetto all'attività produttiva. Bisogna ridurre l'incidenza delle imposte che gravano sul lavoro, alleviare i redditi medio-bassi, rafforzare il sostegno alle famiglie con figli e favorire gli anziani non autosufficienti. Ciò è irrealizzabile senza garantire maggiori entrate fiscali attraverso una efficace lotta all'evasione. A tal fine, è necessario introdurre più stringenti controlli di compatibilità tra la movimentazione dei conti bancari e i livelli di reddito dichiarati al fisco, per individuare transazioni sospette e contrastare l'economia sommersa.

Un'ultima domanda: federalismo fiscale. Chi ci guadagna e chi ci rimette?
Il dibattito sul federalismo fiscale è incentrato su importanti questioni di breve periodo, come i costi standard o la perequazione; si trascurano però effetti ancora più rilevanti, di mediolungo periodo, che potrebbero portare a una progressiva divaricazione tra territori. Ad esempio, la possibilità concessa dal 2014 alle regioni con i conti a posto di ridurre l'IRAP, fino ad azzerarla, favorirà le imprese presenti in quelle regioni e influenzerà le scelte di localizzazione delle imprese. La capacità attrattiva di questi territori crescerà, producendo una concentrazione della produzione e dell'occupazione in quelle regioni, e una diminuzione nelle altre, dove gli incassi fiscali diminuiranno. Stiamo dunque gettando i semi di una Italia duale: una parte destinata ad accelerare sul sentiero dello sviluppo; un'altra che nasce indebitata e scivola nel declino economico. Ci rimetteranno i lavoratori e le imprese meno capaci di spostarsi verso i territori fiscalmente più competitivi. Io non credo che sia accettabile una riforma incapace di garantire a tutte le regioni l'uguaglianza nelle condizioni di partenza. La possibilità di consolidare i debiti regionali in un fondo nazionale, da porre a carico della fiscalità generale, non mi sembra però un tema che possa trovare spazio nell'attuale agenda politica.

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