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  Dicembre 2012

Articoli n° 09
NOVEMBRE 2010
 
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MERCATI EMERGENTI: la Piccola Industria vuole esserci

Nuove strade per le relazioni industriali ALBERTO BOMBASSEI: «Il mondo non sta certo ad aspettarci»

Nuove strade per le relazioni industriali ALBERTO BOMBASSEI: «Il mondo non sta certo ad aspettarci»


Maggiore spirito di collaborazione, meno contrapposizione ideologica; più concretezza e pragmatismo e meno ideologia: questi i passi necessari per un modello di relazioni più moderno ed europeo

«Esiste un forte legame fra la crescita della produttività e lo sviluppo economico e ciò giustifica l'enfasi con la quale oggi si indica proprio nel recupero di produttività la strada maestra per uscire dalla crisi»

di Raffaella Venerando

Alberto Bombassei,
Vice Presidente Relazioni Industriali Confindustria

Presidente Bombassei, la Confindustria sta proponendo un nuovo patto sociale a Governo, Regioni e sindacati anche rendendosi disponibile ad un "tagliando" sull'accordo di riforma della contrattazione del 2009. Quali sono gli aspetti fondamentali?
Credo sia importante in questo momento che il dialogo coinvolga tutte le parti sociali. Va in questa direzione la disponibilità a fare con tutti i sindacati una verifica appunto un "tagliando" - sull'attuazione dell'accordo di riforma degli assetti contrattuali. Questa volontà di dialogo è la stessa che ha portato la Presidente Marcegaglia a promuovere un confronto con tutte le altre parti sociali per avviare un percorso comune volto a definire alcune azioni prioritarie che, nel rispetto del vincolo della finanza pubblica, servano a rilanciare la crescita e l'occupazione. È importante che cresca la consapevolezza delle difficoltà del momento e della necessità di adottare misure efficaci per uscire dalla crisi. Sono convinto che il confronto non sarà sterile ma, anzi, porterà proposte concrete per sciogliere alcuni nodi che, in questo momento, frenano la nostra capacità di crescere. Sui temi sociali, e in particolare su quelli del lavoro e delle relazioni industriali, Confindustria ha presentato un documento in occasione del Convegno sul Lavoro, svoltosi a Genova il 24 e 25 settembre scorso. Nel nostro documento ci sono alcune proposte sulle quali si potrebbe raggiungere un consenso ampio e non in tempi biblici. Alcuni dei temi delineati a Genova, come quello degli strumenti necessari per fronteggiare le ricadute sociali della crisi, saranno certamente oggetto di questo confronto ma ci sono altri argomenti - cito la formazione, il mercato del lavoro, la semplificazione normativa - che, pur non essendo delle "emergenze", debbono poi necessariamente seguire.

La contrattazione collettiva dovrebbe essere strumento di flessibilizzazione dell'organizzazione produttiva e, invece, cosa rischia di diventare?
Personalmente sono convinto che la contrattazione collettiva continui ad essere uno strumento utile per creare condizioni di sviluppo, di crescita e di competitività. É, però, necessario che non perda di vista il suo fine ultimo che è affrontare e risolvere con efficacia e - soprattutto con tempestività - le sfide che la competizione pone alle aziende. La contrattazione collettiva, infatti, ha il difficile compito di risolvere i problemi trovando un giusto equilibrio fra gli interessi di imprese e lavoratori che, non sono sempre interessi contrapposti, anzi, molto spesso coincidono. Se ci sforziamo di tenere il confronto sulle questioni reali, quelle che tutti i giorni si affrontano nelle aziende, riusciremo ad evitare pericolose derive verso modelli del passato. Il confronto sindacale, infatti, non può diventare un pretesto per raggiungere obiettivi che nulla hanno a che vedere con la vita quotidiana delle imprese. Bisogna dirsi con chiarezza che seguire questa pericolosa deriva, in un contesto di crisi ed entro uno scenario di mercati globali, mette in grande pericolo il futuro delle imprese e, conseguentemente, del lavoro.

Stando sempre al tema contratti, non crede ci sia eccessiva distanza tra quello che viene scritto e quello che, invece, accade in concreto nelle fabbriche?
Non credo affatto che vi sia una "eccessiva distanza" fra ciò che le parti scrivono negli accordi e ciò che concretamente accade nei luoghi di lavoro. La crisi arriva proprio quando non si realizzano gli impegni che si sottoscrivono. Ma questo avviene molto raramente. Anzi nelle aziende dove c'è una buona contrattazione ciò che si scrive è poi esattamente ciò che si fa. Più si resta vicini alla concretezza delle situazioni e più diviene facile trovare un punto di equilibrio. Di contro è evidente a tutti che le discussioni fatte in punta di diritto o sui principi astratti sono quelle che registrano le maggiori distanze. Non voglio banalizzare, capisco anche l'importanza di un confronto sui principi, ma attenzione a non allontanarsi troppo dalla vita reale. Nella mia esperienza "sindacale" ho assistito a lunghe e inconcludenti discussioni sui principi che hanno poi trovato nella realtà delle soluzioni sorprendentemente semplici e rapide. Ancora una volta, da imprenditore, voglio sottolineare la necessità di un forte richiamo alla concretezza. In questo senso occorre un cambiamento culturale.

Di che tipo? Che genere di cambiamento culturale è necessario nelle relazioni industriali del nostro Paese e perchè?
Sono convinto che le nostre relazioni industriali debbano fare un passo in avanti verso un modello di relazioni più moderno ed europeo. Non ho una formula magica. Però, se dovessi indicare la strada direi: maggiore spirito di collaborazione, meno contrapposizione ideologica; più concretezza e pragmatismo e meno ideologia. E quando dico ideologia, mi riferisco a cose concrete come denunciare la violazione dei diritti dei lavoratori quando, invece, si tratta di contrastare comportamenti furbeschi che penalizzano tanto le aziende che tutti gli altri lavoratori che non sono né finti malati, né scioperanti di comodo. Occorre poi più affidabilità. Le parti che firmano un accordo debbono poter reciprocamente contare sul fatto che le intese saranno rispettate. Dobbiamo anche avere la consapevolezza che nuove relazioni possono dare buoni frutti solo se poggiano su una visione di fondo condivisa. Dobbiamo poi cominciare anche a misurare i risultati di quello che le relazioni industriali producono rispetto agli obiettivi che si vogliono perseguire. Forse il cuore del problema è qui: avere obiettivi strategici condivisi e misurane il grado di raggiungimento. É la stessa sfida culturale, però, che la crisi mette davanti alla nostra economia, alla nostra società, al nostro modello di welfare occidentale. Un mondo senza più confini, un'economia globalizzata senza adeguati modelli di governance, una competizione che sconta nelle diverse aree del pianeta significativi differenziali economici e sociali sono un quadro di riferimento non facile da decifrare. Nessuno sa esattamente preve-dere cosa potrà accadere dopo questa fase di crisi e nessuno sa dire con esattezza come ci coglierà la ripresa. Quello che però, non possiamo fare è guardare ai modelli del passato, ripiegarci sui nostri luoghi comuni, sulle nostre abitudini. Dobbiamo invece, guardare ai problemi nella loro cruda realtà e affrontarli cercando di trovare nuovi equilibri che facciano fare a tutti un passo avanti. Se non si comprende la necessità di fare insieme un passo in avanti nell'interesse generale, temo che dovremo scontare negative conseguenze. In una parola direi che dobbiamo avere tutti un po' di coraggio imprenditoriale, rimetterci in discussione, cercare nuove strade, nuove prospettive perché il mondo non sta certo ad aspettarci.

L'Italia è un paese sostanzialmente manifatturiero. Crede che il pericolo di deindustrializzazione sia una minaccia reale?
É bene interrogarsi con grande onestà sul nostro futuro. Sono convinto che, per rimanere fra i paesi più evoluti e conservare un elevato livello di benessere, sia necessario, non solo preservare la nostra vocazione manifatturiera, ma sostenerla con coerenza e determinazione. Non c'è spazio per soluzioni di compromesso. Dobbiamo investire per un manifatturiero di alto livello, nella scuola, nella formazione dei giovani, nella formazione durante tutto l'arco della vita, nell'università. Dobbiamo mettere fondi sulla ricerca e sull'innovazione, cercando nelle pieghe del bilancio dello Stato quelle risorse disponibili che si possono destinare a questo scopo. Considero queste risorse un investimento e non una spesa. É certo, però, che su questo terreno anche le imprese debbono fare la propria parte.

La crisi ha acuito anche il fenomeno del sommerso, piaga che porta con sé evasione fiscale ma anche mancanza di sicurezza sul lavoro. Come si combatte il lavoro nero?

Si combatte affermando la legalità.
Il fenomeno del sommerso in Italia ha raggiunto un livello impressionante e tutti sono concordi nel sostenere che la crisi abbia avuto un effetto di accelerazione ulteriore su un fenomeno già di per sé significativo. Per il nostro Centro Studi, dopo una flessione nel periodo fra il 2001 ed il 2007, il fenomeno del sommerso è bruscamente cresciuto nel 2009, tanto che il suo peso ha oltrepassato il 20% del Pil. Di conseguenza vanno corrette anche le valutazioni relative all'evasione fiscale che si proietta su valori molto superiori ai 125 miliardi stimati precedentemente. Per il sommerso si va da un minimo di 55 a un massimo di 275 miliardi. Al Sud il fenomeno ha caratteristiche doppie rispetto al Nord. Tutto ciò produce un effetto sulla pressione fiscale effettiva che, nel 2009, è stata sopra il 54%, ben oltre il 43,2% stimato dai documenti ufficiali. Questi dati dimostrano che la lotta all'evasione non può più essere differita.

Come si recupera il terreno perduto in competitività? La lezione tedesca può esserci di aiuto?
L'Italia condivide con la Germania una forte vocazione manifatturiera. In questa speciale classifica siamo secondi in Europa, proprio dietro ai tedeschi ed è, quindi, del tutto logico che si confrontino e si misurino i risultati delle nostre reciproche politiche economiche d industriali. A questo proposito segnalo solo due aspetti che mi sembrano interessanti e sui quali credo sia opportuno riflettere. Il tasso di produttività dei due paesi si è progressivamente distanziato in questi ultimi dieci anni, a vantaggio delle imprese tedesche. Oggi è stimato in circa 30 punti percentuali. É un trend preoccupante che bisogna assolutamente invertire. Il secondo aspetto riguarda l'impatto occupazionale della crisi. É impressionante leggere i dati che mostrano come la Germania abbia saputo attraversare questa grave crisi senza impatti occupazionali. Questi due aspetti confermano che esiste un forte legame fra la crescita della produttività e lo sviluppo economico e ciò giustifica l'enfasi con la quale oggi si indica proprio nel recupero di produttività la strada maestra per uscire dalla crisi. In questa prospettiva ha, dunque, buone ragioni il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, quando ci indica il modello tedesco come sistema virtuoso per accrescere la produttività del lavoro, ma non ha torto neppure il Ministro Tremonti quando ci ammonisce a non cadere nella trappola delle eccessive semplificazioni. Siamo, infatti, due paesi molto differenti e non sono affatto sicuro che tutto quello che in Germania produce frutti vada automaticamente nella stessa direzione una volta trasferito in Italia. Non dobbiamo scordarci, infatti, che partiamo da situazioni non perfettamente confrontabili, soprattutto per la situazione dei conti pubblici e per le caratteristiche del sistema produttivo. Però, qualche lezione di tedesco non ci farebbe male…

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