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  Dicembre 2012

Articoli n° 10
DICEMBRE 2009
 


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XVI Giornata Orientagiovani

Sviluppo al Sud, ultima chiamata

Sperimentazione di servizi e-learning

Appalti e LegalitÀ

Sviluppo al Sud, ultima chiamata

L’economista Massimo Lo Cicero e il presidente del Censis Giuseppe De Rita
concordano sulla necessità di uscire dalla cultura della spesa regionale per non rischiare di ripetere con i fondi strutturali 2007-2013 l’esperienza deludente di Agenda 2000

di Raffaella Venerando


Giuseppe De Rita, Agostino Gallozzi e Massimo Lo Cicero

Un’alleanza tra risorse intelligenti quella idealmente stretta lo scorso 20 novembre in Confindustria Salerno, in occasione di un workshop sullo sviluppo organizzato dall’Associazione degli Industriali.
L’incontro tra l’economista Massimo Lo Cicero e il Presidente del Censis Giuseppe De Rita, infatti, non è stato soltanto un momento di alta analisi economica e politica, ma un vero e proprio fermo immagine sulla storia del Sud, sui suoi meccanismi, sulle regole e su quei modelli che non hanno mai permesso al Mezzogiorno di prendere quota. Le ragioni di uno sviluppo mancato di ieri e le direttrici lungo le quali provare a riagganciare la ripresa oggi sono state il cuore del dibattito. È stato esattamente dal “dove siamo” che si è dipanato il ragionamento dei due studiosi, fino ad arrivare al “cosa potremmo fare” ora. Subito.
Mai cattedratici, Lo Cicero e De Rita hanno affrontato uno dietro l’altro temi concreti: sviluppo, infrastrutture, intervento statale, ruolo dell’Europa. Lo Cicero ha ripercorso - catalizzando l’attenzione degli industriali presenti alla discussione - gli ultimi vent’anni dell’Italia e del mondo, partendo dalla caduta del muro di Berlino, quando in molti erano convinti che si sarebbero finalmente risolti numerosi problemi senza prevedere invece che ne sarebbero sorti dei nuovi. Secondo l’economista napoletano, dopo l’esperienza deludente di Agenda 2000 - che pure aveva di positivo lo sviluppo “dal basso” - rischiamo di mancare anche le opportunità offerte dalle risorse 2007-2013 perché nel frattempo al Sud si è persa l’intelligenza finanziaria, non essendoci più alcuna “testa”, alcun centro decisionale bancario al Mezzogiorno. «Ci converrebbe - sottolinea al riguardo - creare una grande banca regionale di sviluppo capace di gestire non i soldi europei ma le politiche di sviluppo del Mediterraneo, e che al contempo sia in grado di dialogare e alimentare la civiltà degli scambi. Il Mediterraneo deve puntare a qualificare se stesso come un unico referente dotato di una sua forte e precisa identità negli scambi». Secondo Lo Cicero, poi, le regioni meridionali andrebbero gestite in maniera più collegiale, abbandonando quelle sovrastrutture burocratiche, tipo la Conferenza delle Regioni, e puntando su una coesione reale. «Se il Mezzogiorno riesce a mettersi in moto diventa un “affare” per l’Italia, ma la ripresa deve essere mediterranea e non solo regionale». L’originalità delle riflessioni e il coraggio nell’analisi di diversi aspetti legati allo sviluppo del Mezzogiorno ha accomunato i due ospiti di Confindustria Salerno.
Anche Giuseppe De Rita, infatti, ha offerto agli industriali presenti all’incontro punti di vista interessanti e nuovi. Sotto la lente attenta di De Rita è finito il traguardo che il Sud deve darsi per i prossimi anni: cercare dei big players capaci di fare da traino per lo sviluppo. Secondo il presidente del Censis «soltanto gli imprenditori hanno la cultura per farlo. Le imprese, cioè, possono diventare big player o il big player dello sviluppo».
In passato il connubio pubblico-privato al Sud non ha funzionato, l’economia mista non ha funzionato.
«Bisogna uscire dalla cultura della spesa regionale - ha rimarcato De Rita - per non rischiare di ripetere con i fondi strutturali 2007-2013 quello che si è già verificato con Agenda 2000, caso emblematico del trionfo della cultura perdente e povera dei capi-corrente, dei capi-collegio, della burocrazia». «Quando inventai i patti territoriali - ha ricordato De Rita - l’obiettivo era quello di creare una classe dirigente locale che sostituisse già allora i capi-corrente. Ma quando i patti si moltiplicarono, si perse la necessaria capacità di concentrazione territoriale degli interventi». Poi ha proseguito, rafforzando il concetto: «Basta con i little players, non funzionano più. Bisogna reagire altrimenti rischiamo altri sei anni di spesa improduttiva».
Il messaggio rivolto quindi agli imprenditori è stato forte e chiaro: «Occorre un diretto impegno del sistema confindustriale nella dimensione imprenditoriale collettiva, non solo nella rappresentanza. Su banda larga, logistica e servizi pubblici locali si gioca la partita dello sviluppo. La classe trainante oggi - conclude De Rita - può essere solo quella industriale se riesce a insistere su quei meccanismi produttivi e di collaborazione capaci di rompere, tra le imprese, la tendenza all’isolamento».
La classe imprenditoriale al Sud deve tornare ad essere - per dirla con Frank Knight - «un pensatore serio e non un semplice meccanico dell'economia», un fronte aggregato e compatto, abbandonando individualismi controproducenti e andando direttamente sul mercato pronta non solo a resistere, ma a vincere.

intervista

De Rita: «La ripresa? Possibile solo grazie all’industria»


Giuseppe De Rita
Presidente Censis

Professore, la crisi come trasformerà il Paese?

Lo scorso anno sembrava essere vicina per il Paese una sorta di metamorfosi, bloccata poi sul nascere dall’avvio della crisi. Erano nell’aria infatti alcuni germi di novità nei quali torniamo a credere oggi sperando che - nel meccanismo della ripresa del 2010 - possano essere sostenuti e non compressi dall’evoluzione complessiva del nostro sistema economico. La crisi ha rimesso inesorabilmente alla prova la struttura economica e produttiva italiana, dando spazio a percorsi originali di crescita che presto emergeranno. Il momento è complicato, ma credo che il Paese riuscirà a superarlo proprio grazie ad una metamorfosi del sistema, come accadde dopo la guerra. Dalla crisi ci siamo in parte schermati difendendo l’esistente; pertanto possiamo dire che a vincere è stato il modello della piccola impresa, del lavoro flessibile, della famiglia, della casa, del localismo e non quei germi di novità che ci auguriamo possano “esplodere” il prossimo anno.

Ha vinto quindi quella che lei ha definito «l’arretratezza storica del Paese»?
Il nostro Paese ha retto esattamente grazie a quelle caratteristiche che lo facevano sembrare molto arretrato. Hanno retto quegli elementi di premodernità capaci di garantire sicurezza, come la famiglia, i risparmi e la casa di proprietà, oltre che l'intreccio più stretto tra reti sociali e reti produttive, il basso indebitamento delle imprese e il ruolo delle banche locali, delle organizzazioni di categoria, dei governi locali. Sono sicurezze che un inglese - ad esempio - non possiede e che invece il piccolo borghese italiano ha. Questa sorta di arretratezza storica del Paese, di ipomodernità, è stata la nostra fortuna in un momento difficile come quello che stiamo ancora vivendo.

Quali sono le prospettive per il Mezzogiorno? Chi può avere un ruolo fondamentale nel far partire la ripresa?
Anni addietro, la programmazione negoziata era stata studiata per stimolare specialmente al Sud un modo nuovo di concepire il rapporto tra gli attori sociali e il territorio, un rapporto che si basasse sulla condivisione tra le parti sociali degli obiettivi da raggiungere e sulla responsabilità di ciascuno nel contribuire allo sviluppo economico del territorio. Ritengo che al Sud la scommessa del patto territoriale potrebbe ancora oggi essere quella giusta per creare sviluppo a partire dal basso, dal locale, ma purtroppo i fatti dimostrano che i patti territoriali - interpretati male - hanno generato sfiducia e delusione. Rimane quindi una sola possibile soluzione: quella di un diretto impegno della dimensione industriale. Solo l’industria può far ripartire il Paese ma per farlo deve fare un salto di qualità fondamentale, diventando imprenditoria collettiva e non solo agente di rappresentanza. La rappresentanza ormai da sola non basta. La classe trainante oggi può essere soltanto quella industriale se riesce a smettere però i panni di “centrale di opinionisti” insistendo piuttosto su quei meccanismi produttivi e di collaborazione in grado di rompere la tendenza all’isolamento tra le imprese.

Ritiene veramente possibile la trasformazione di un sistema che nei fatti poi è molto autoreferenziale come quello confindustriale?
A livello periferico penso di sì. Conosco a fondo il sistema confindustriale e so quanto i presidenti di turno abbiano a cuore fare molto - e bene - nella loro stagione di presenza pubblica. Ma più di ogni altra cosa il presidente di una qualsivoglia associazione degli industriali deve capire quali sono gli interessi da difendere e difenderli prima da imprenditore e poi in qualità di presidente.

 

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