Il punto sulla lotta all’evasione
Marco FIORENTINO
Dottore Commercialista
marcofiorentino@studiofiorentino.com
Da quando è stata varata la riforma fiscale
in Italia, il tema della lotta all'evasione è stato sempre centrale in ogni politica finanziaria
del Governo
L'evasione, com'è noto, viola il principio costituzionale, che prevede che ciascun contribuente debba contribuire alle spese dello Stato, in base alla propria capacità contributiva ed inoltre è fonte di ingiustizia sociale, posto che, non riguardando il mondo del lavoro dipendente, di fatto lo penalizza, rispetto ad altre categorie di contribuenti.
Infatti, il lavoratore dipendente, essendo per definizione impossibilitato ad evadere, finisce per sopportare, a parità di reddito lordo, un prelievo fiscale superiore rispetto ad altri contribuenti, tipicamente imprese e lavoratori autonomi, le cui chances di evasione si presentano in astratto più elevate.
Sulle ali della doverosa esigenza di maggiore giustizia sociale e (un po' maliziosamente) della impossibilità di altrimenti ridurre il deficit di bilancio, la lotta all'evasione sta avendo un nuovo forte rilancio.
Rilancio alimentato anche dalle risultanze di una analisi condotta di recente dal Sole 24 Ore, che ha evidenziato un importo annuo di evasione in Italia pari ad oltre 100miliardi di Euro. Un numero impressionante. A parziale attenuazione vanno dette però tre cose: la prima è che l'importo dell'evasione è in qualche modo in relazione con il PIL del relativo Paese, per cui, a PIL grande corrisponde una evasione grande: la seconda è che essa non è un fenomeno esclusivamente italiano, trovando importanti attecchimenti anche in Germania, Australia e così via.
La terza attenuante è che dai dati sull'evasione occorre eliminare a mio avviso quella (pari circa 40 Mldi) relativa ai contributi previdenziali, che, in linea di principio, ha ragioni ulteriori e forse predominanti, rispetto alla mera volontà di pagare meno tasse in generale.
Peraltro, la contribuzione previdenziale è per sua natura un costo deducibile, cioè riduce il carico delle imposte dirette, per cui, sotto il mero profilo di cassa, la relativa evasione si presenta di minor "fascino" rispetto al mancato pagamento delle imposte in senso stretto.
Essa sembra più rappresentare una delle conseguenze dell'illegale sottrarsi alla rigida normativa sul lavoro dipendente. Appare sostanzialmente come un aberrante ulteriore vantaggio discendente dalla illecita libertà organizzativa che si realizza con le cosiddette "assunzioni a nero".
Ne consegue che, almeno sotto il profilo della causa, l'omissione contributiva debba essere stralciata dal "monte evasione" e che la stessa debba trovar soluzione più nella norma sostanziale, che attraverso la lotta ai suoi effetti. Tuttavia, pur al netto del dato sui contributi, non può negarsi che l'ammontare dell'evasione propria dalle tasse (cioè dichiarare meno di quanto si guadagni) si presenti molto elevato e riguardi essenzialmente l'IRPEF. Né che, almeno in termini percentuali sul PIL, tale fenomeno sia quello più rilevante tra gli Stati OCSE.
La causa che spesso viene invocata è l'elevata tassazione del reddito prodotto: dato peraltro confermato anche dai rilevamenti OCSE.
L'Italia è lo Stato con le aliquote marginali più elevate, rispetto ad una media (calcolata su base PIL) pari al 33%. Dieci punti in meno! Pur rilevando l'enormità del differenziale, ritengo in verità che le alte tasse non siano causa in senso stretto dell'evasione, bensì una sorta di motivazione morale. In una parola: sono la giustificazione (molto convincente) dell'evasore.
La causa vera, sostanziale, è l'inefficacia del controllo. Se i controlli fossero adeguati sarebbe molto difficile sottrarsi al pagamento delle imposte, qualunque fosse l'ammontare delle relative aliquote.
Ed in quello scenario, l'elevata tassazione sarebbe "solo" una ragione politica da far valere in cabina elettorale.
L'evasione, quindi, si combatte solo con controlli certi ed efficaci. Purtroppo, sotto questo essenziale profilo, ritengo che in Italia siamo ancora lontani dal raggiungimento di un quadro normativo razionale, che tenga anche conto dell'imprescindibile equilibrio tra tutela delle ragioni dello Stato e salvaguardia dei diritti (di iniziativa economica, organizzativa e di riservatezza) dei contribuenti.
Le recenti norme antievasione infatti sembrano più finalizzate, da un lato a scaricare le inefficienze organizzative degli Uffici Finanziari sui contribuenti, attraverso la crescita a dismisura degli adempimenti a loro carico e dall'altro, ad aumentare tout court il prelievo, attraverso maggiori rigidità nel sistema di deduzione dei costi o di evidenziazione dei ricavi e l'inasprimento indifferenziato delle modalità di recupero coattivo delle imposte.
Queste logiche in realtà sarebbero da rifuggire, poiché sono le logiche di sempre e si basano sul presupposto, storicamente fallimentare, che l'evasione sia figlia degli "eccessi" di libertà operativa e che la si possa combattere solo limitando questa libertà, imponendo maggiori formalismi e nuovi obblighi. Questo approccio formalistico, tra l'altro, ha sempre la fastidiosa e paradossale controindicazione di far aumentare la propensione all'evasione. Si concede all'evasore, totale o parziale, una motivazione in più ed al contempo si costringe il solito contribuente virtuoso a sopportare ulteriori obblighi e maggiori tasse a fronte di nessuna evasione, posto che, anche qui per definizione, il contribuente virtuoso non evade. Doppio danno quindi.
Nulla di veramente serio ed innovativo pare di cogliere, invece, sul fronte della certezza e dell'efficacia del controllo.
In un sistema economico come quello attuale, dove i redditi tendono sempre più ad assumere una configurazione finanziaria e sopranazionale difficilissima da cogliere, la lotta all'evasione necessita di specializzazione e di focalizzazione. I drivers chiave appaiono sostanzialmente due: ricerca della ricchezza effettiva e certezza del suo controllo.
Vanno quindi privilegiati e modernizzati i meccanismi di espressione a valor reddituale delle manifestazioni di ricchezza e del tenore di vita di ciascun contribuente, soprattutto attraverso le innumerevoli banche dati informatiche disponibili, e al contempo va istituzionalizzato, sempre con l'ausilio dell'informatica, un sistema di controllo su base periodica certa, nel rispetto ovviamente del principio della prova contraria.
Questo appare a mio parere un modo serio e moderno di procedere alla lotta all'evasione. Così operando, si raggiunge l'obiettivo finale di ogni amministrazione finanziaria: verificare che il reddito dichiarato da ciascun contribuente sia compatibile con la ricchezza evidenziata, in termini di spese e di investimenti.
Tutto il resto va abbandonato ed in fretta. Adempimenti minimi e controlli veri, questo è quello che chiedono tutti gli operatori.
A questo punto però sia consentita una riflessione un po' cinica e maliziosa. Nel presupposto che con controlli seri, si riuscisse a recuperare il 50-60% dell'evasione, quali potranno essere le conseguenze?
Certamente maggiori entrate dello Stato, ma non solo questo, temo. Realisticamente, dobbiamo porci la domanda se ogni singolo contribuente (più o meno evasore) sia veramente disponibile a farsi diminuire dallo Stato il proprio reddito disponibile, la propria ricchezza, senza cercare soluzioni alternative. È facile infatti accettare una maggiore tassazione, se si tratta in astratto di consentire una maggiore equità, non so sia facile accettarla, se essa determina una diminuzione tout court del tenore di vita. Mi parrebbe un po' contro la natura umana.
Se questa domanda avesse, come temo, una risposta negativa, la conseguenza dell'ipotizzato recupero di evasione, potrebbe anche essere un incremento dei prezzi al consumo, per effetto dello scarico sul consumatore finale dell'ammontare delle nuove tasse pagate, al fine di mantenere inalterato il "netto disponibile".
Con gli immaginabili effetti politici e sociali.
Basti ricordare ciò che è successo con l'avvento dell'euro, dove ad una diminuzione delle marginalità d'impresa, a causa dell'accresciuto costo dei fattori della produzione, fece immediatamente seguito un sostanziale e perequativo raddoppio dei prezzi. Sopportato, come sempre dai consumatori finali.
Ovviamente, non c'è alcuna certezza che questa perniciosa conseguenza possa effettivamente verificarsi, ma penso sia prudente non escluderla e soprattutto prevedere in largo anticipo le possibili soluzioni. Qualunque esse siano sotto il profilo tecnico, è chiaro che esse devono tendere a riversare i benefici del maggior gettito alla collettività, senza porsi demagogici obiettivi di utilizzi diretti da parte dello Stato per conto e nell'interesse del popolo, onde evitare ulteriori impoverimenti del potere di acquisto, soprattutto delle classi meno abbienti od a reddito fisso. Tuttavia, essendo questa redistribuzione compito della classe politica, ogni dubbio o perplessità sulla sua effettiva realizzazione appare più che fondato.
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