L’occupazione femminile in Italia
Le opportunitÀ da cogliere
Alberto BOMBASSEI
Vice Presidente di Confindustria per le Relazioni Industriali
e gli Affari Sociali
L'Europa ha scelto il 2007 come Anno europeo delle Pari Opportunità, proprio in contemporanea con i festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario del Trattato di Roma.
Al di là delle celebrazioni di rito, che pure hanno un significato importante, questa fortunata coincidenza rappresenta un'occasione utile per fare un bilancio sui progressi finora compiuti, ma anche - e soprattutto - per comprendere meglio il presente e discutere del futuro che vogliamo costruire.
Il processo di integrazione europea, con lo stimolo al rilancio della competitività che ne consegue, è una sfida che va vinta in tutti i paesi, anche sul fronte dell'occupazione femminile.
Se vogliamo, infatti, affrontare le sfide della globalizzazione e conseguire gli obiettivi europei di crescita, occupazione e coesione sociale, dobbiamo creare posti di lavoro migliori e più numerosi non solo per gli uomini, ma anche per le donne.
Come si presenta l'Italia in questo contesto? L'analisi “di genere” delle trasformazioni che hanno caratterizzato la società italiana negli ultimi trent'anni, mette in evidenza che molte cose sono cambiate.
Nel 1970, le ragazze che conseguivano il diploma di scuola superiore erano circa il 40% dei diplomati; quelle che si laureavano erano poco più di un terzo dei laureati e il tasso di occupazione delle donne era inferiore al 20%. Il quadro odierno fa emergere indubbiamente numerosi progressi. Il livello di istruzione delle donne è cresciuto: ogni anno si laureano e si diplomano più donne che uomini ed oltre il 28% delle venticinquenni raggiunge la laurea, contro il 19% tra i ragazzi. Anche l'occupazione femminile, negli ultimi decenni, ha fatto registrare un costante trend di crescita che, oggi, ha portato la percentuale di donne occupate a valori che superano il 46%.
Emergono, tuttavia, ancora molte criticità da affrontare.
Nonostante la forte crescita dei livelli di istruzione registrata, infatti, le donne italiane non hanno ancora recuperato il divario esistente rispetto ad altri paesi europei con riferimento ai livelli di istruzione superiore, tanto che il nostro Paese rimane agli ultimi posti nella classifica riguardante la percentuale di donne tra 25 e 34 anni con almeno un titolo di istruzione secondaria superiore.
Ed anche se è vero che, tra gli universitari, prevalgono numericamente le donne, quando consideriamo le discipline verso cui più si orientano le studentesse, ai primi posti troviamo quelle umanistiche e non quelle scientifiche, matematiche ed informatiche. È superfluo sottolineare - e lo dico da imprenditore - quanto ciò limiti, di fatto, le possibilità di adeguati sbocchi professionali per le donne.
Sull'occupazione femminile, l'Italia continua a mantenere un ritardo considerevole rispetto a tutti gli altri paesi industrializzati. Pure in presenza, infatti, di una crescita significativa dell'occupazione femminile, rimane di circa dieci punti percentuali la distanza che separa il nostro Paese dal dato medio europeo e il divario aumenta se si considerano gli obiettivi indicati dalla strategia di Lisbona.
Quale, dunque, la ricetta per favorire una maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro italiano?
Come sempre, è il confronto con l'Europa ad indicarci la strada.
Le esperienze dei paesi più virtuosi ci indicano quanto sia importante un policy mix equilibrato che coniughi flessibilità del lavoro, interventi legislativi di sostegno ed adeguati servizi di assistenza e cura per l'infanzia e per gli anziani, in un ambiente macroeconomico - ma, certo, anche culturale - favorevole.
L'Italia, negli ultimi anni, ha fatto passi importanti su questa strada. Il quadro legislativo di sostegno alle pari opportunità è maturo e di dettaglio. Basti pensare alle tutele garantite dal nostro ordinamento alle lavoratrici madri ed ai padri che sono - lo ha di recente sottolineato la stessa Commissione europea - una best practice nell'UE.
Inoltre, le riforme del mercato del lavoro intraprese negli ultimi anni hanno ampliato le possibilità di occupazione regolare e tutelata per le donne. Importante, a questo proposito, si è rivelato lo strumento del part-time che, dopo essere stato cronicamente meno della metà della media europea a causa di una legislazione vincolistica che non aveva eguali in nessun altro paese dell'Unione, ora sta finalmente crescendo, con una percentuale che supera il 26% sul totale delle occupate.
Si tratta di performance positive che confermano - come, del resto, viene sottolineato anche nella recente Comunicazione della Commissione europea sulla flexicurity - quanto le forme contrattuali che coniugano in modo innovativo flessibilità e sicurezza possono effettivamente favorire l'ingresso nel mercato del lavoro per i gruppi più esposti al rischio di esclusione sociale, come i giovani e, appunto, le donne. È quando guardiamo al quadro istituzionale di sostegno che l'Italia appare, invece, ancora molto indietro.
La misura più efficace per favorire l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro - e trattenerle anche dopo la maternità - è rappresentata dalla sicurezza di poter contare su strutture di cura per l'infanzia e per gli anziani diffuse, accessibili ed affidabili.
Va allora al più presto colmato, anche con il ricorso al sostegno finanziario messo a disposizione, ad esempio, dall'UE, il deficit di servizi pubblici di assistenza che, troppo spesso, fa sì che anche ragazze con caratteristiche di eccellenza, i famosi “talenti”, si autoescludano dal mercato del lavoro per ragioni di famiglia.
Non è un caso, infatti, che il tasso di occupazione delle donne sia elevato - ed anche il tasso di fertilità aumenti - nei paesi in cui questi servizi sociali sono migliori. E non pensiamo solo ai paesi scandinavi, ma anche alla Francia o alla stessa Germania che ha di recente lanciato un piano per triplicare gli asili nido entro il 2013.
Si tratta di esempi virtuosi, in cui gli interventi sui servizi pubblici di questo tipo hanno rappresentato un impegno concreto e prioritario.
Ciò non esclude contributi anche da parte delle imprese, la cui responsabilità, però, non si può sostituire a quella delle istituzioni pubbliche.
L'impegno che le imprese stanno ogni giorno dimostrando nel creare sviluppo ed occupazione si rivolge anche alle donne, al loro potenziale, alle loro capacità, che sarebbe grave - e non solo ingiusto - non valorizzare appieno.
Le nostre imprese lo stanno facendo con successo, investendo nel capitale umano femminile, sviluppandolo e premiandolo (gli ultimi dati della Commissione europea sulle differenze retributive tra uomini e donne in Europa dimostrano, ad esempio, che l'Italia è il paese con il minore gender gap nell'Unione europea).
I progressi si vedono, anche dal punto di vista culturale. Si tratta, ora, di facilitare ed accelerare questo processo, per far sì che metta radici più profonde nella nostra società. Solo così le pari opportunità teoriche cui, non senza una certa enfasi, si fa spesso riferimento, potranno trasformarsi in opportunità pienamente colte per le donne.
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