L'INNOVAZIONE FISCALE PRESUPPOSTO DELLA CRESCITA
CERTIFICAZIONE E COMPENSAZIONE DEI CREDITI VERSO LA PA
CREDITO D'IMPOSTA PER L'ASSUNZIONE DI LAVORATORI SVANTAGGIATI
PARTECIPATE A FINE CORSA Cronaca di una morte annunciata
PARTECIPATE A FINE CORSA Cronaca di una morte annunciata
ALESSANDRO SACRESTANO
Amministratore Unico Assindustria Salerno Service srl Progetto Arcadia srl
Politica e attività d'impresa trovano spesso punti di contatto.
A volte, l'interrelazione fra questi due elementi portanti della nostra società produce risultati apprezzabili, modelli replicabili e teorizzazioni delle quali si continuerà a parlare per anni.
In altri casi, la commistione genera mostri nati sotto bandiere bipartisan.
Due sono, in particolare, gli esempi che, in tal senso, ritengo siano significativi e sui quali credo valga la pena di proporre qualche considerazione a proposito di un'auspicata separazione fra i due ambiti.
Su un piano prettamente provinciale, fa riflettere la sorte di imprese come la Se.Ta. o il CSTP.
Su entrambe impazza lo scontro puramente politico sulle responsabilità del tracollo e, nel mentre l'attenzione cade su particolari trascurabili delle vicende, si omette di fare l'unica riflessione che la fattispecie meriterebbe.
Il crollo di realtà come quelle citate è sintomatico della debacle di un modello imprenditoriale, di un prototipo gestionale politicizzato, in cui la politica interviene non nella fase del controllo degli obiettivi prefissati, ma nel vero e proprio menage dell'impresa.
La lezione che se ne trae è che la scelta di consegnare nelle mani della politica la gestione di attività strategiche – potenzialmente remunerative – dovrà essere definitivamente abbandonata in futuro. Per questo mi sento di poter condividere le indicazioni contenute nel decreto sulla spending review in base alle quali sarà inibito in futuro la costituzione di "partecipate" pubbliche allo scopo di far loro gestire attività d'impresa. É
ormai chiaro che – fatte salve alcune eccezioni – tali strutture finiscono per trasformarsi nel collettore di interessi tutt'altro che imprenditoriali che, da un lato, distruggono il business loro affidato e, dall'altro, non fanno che ingenerare problemi sociali (le risorse umane da reimpiegare all'epilogo dell'avventura) che, poi, la politica ha difficoltà oggettive (la mancanza di fondi) ad accollarsi.
Sul piano nazionale, trovo opinabili le pressioni del mondo politico e di quello culturale sulle strategie di investimento adottate dalla FIAT. Quando l'impresa di Torino riceveva abbondanti sovvenzioni e, in cambio, manteneva in piedi stabilimenti e personale (fungendo un po' da ammortizzatore sociale), c'era chi storceva il naso.
Ora che la nuova dirigenza invoca la libertà di scelte diverse, libere e autonome, si sentono argomentazioni improbabili sul presunto diritto degli stakeholders, in nome dei quali FIAT sarebbe moralmente obbligata ad investire sul territorio nazionale. Non mi sento in linea con tali predicatori. Si dimentica, forse, che la funzione sociale di un'attività di impresa non può configgere col portafogli della proprietà.
É un discorso arido e con toni riprovevoli (lo è certamente per la schiera di moralisti che stigmatizza l'affarismo di Marchionne).
Cosa potrebbe cambiare lo scenario ? La politica! Il Governo statunitense ha investito danaro pubblico nel comparto automobilistico di sua pertinenza, consapevole della "funzione sociale" che gli stava demandando.
Fossi io nei panni degli amministratori pubblici non mi chiederei cosa la FIAT può (deve) fare per il Paese (mantenere i livelli occupazionali, tenere aperti gli stabilimenti, produrre anche col mercato in recessione, ecc.); mi chiederei, anzi, cosa il Paese può (deve) fare per FIAT (assicurare un costo del lavoro più basso, in linea con quello dei competitors europei, detassare gli utili reinvestiti in azienda, supportare con incentivi la spesa in Ricerca&Sviluppo, ecc).
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