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La presenza di diversi sistemi tributari in ambito UE ha da sempre rappresentato un tangibile ostacolo alla realizzazione di un mercato comune
europeo. Un primo significativo passo verso l'armonizzazione fiscale europea ha riguardato l'eliminazione dei dazi doganali tra gli stati membri. Questa disposizione era stata inserita nella
"Risoluzione di Messina" del 1955 e nel "Trattato di Roma" del 1957. L'armonizzazione fiscale europea ha avuto inizio con norme riguardanti le imposte sul fatturato, le accise, e altre forme di
tassazione indiretta. Nel 1960, una commissione di esperti fiscali e finanziari, guidata dal professor Fritz Neumark, fu incaricata di esaminare il rapporto esistente tra la tassazione e la
spesa pubblica in ciascun paese membro, con particolare attenzione a quegli aspetti che potenzialmente potevano essere d'ostacolo alla creazione di un mercato comune. Nel 1963 la speciale
commissione pubblicò il cosiddetto "rapporto Neumark". In questo si evidenziarono tutti quei fattori che impedivano la creazione di un mercato comune, la cui soluzione consisteva
nell'armonizzazione delle imposte sul capitale, sulle società, su quelle indirette e della tassazione sui capital gains. Da allora pochi significativi passi avanti sono stati fatti in tema di
armonizzazione delle imposte dirette. L'imposta sul reddito costituisce il principale esempio delle difficoltà esistenti in ambito UE nel conseguire un'armonizzazione fiscale in quanto ciascuno
stato membro ha da sempre mostrato riluttanza sulla perdita potenziale di qualsiasi tipo di controllo sulla propria fiscalità. L'armonizzazione delle imposte sul reddito implica un allineamento
tra i vari stati dell'Unione non solo delle aliquote fiscali, ma anche della base imponibile e delle modalità in cui essa è determinata. Le principali ragioni per cui ciascuno Stato membro è
riluttante a rinunciare al controllo dell’imposizione diretta sono rappresentate dal timore di perdere una fonte principale di entrata e dal venir meno di un potente strumento di politica
economica e sociale. Oltre alle citate ragioni, vi possono essere anche delle implicazioni di natura finanziaria. Un esempio è dato dalla thin capitalization (la capitalizzazione sottile, che
prevede il finanziamento delle attività detenute all'estero mediante debito e non attraverso capitale) esistente nella maggior parte dei sistemi fiscali dei paesi UE e di prossima introduzione
anche nel sistema tributario italiano. Con la normativa sulla thin capitalization si cerca di evitare il trasferimento di imponibile fiscale da paesi con elevata pressione fiscale verso altri
che ne presentano una piùbassa. Ciò in quanto le spese sostenute per gli interessi passivi per prestiti finanziari in genere sono utilizzate per ridurre la base imponibile su cui pagare le
imposte. Simili manovre fiscali sono, comunemente, effettuate allo scopo di spostare ricavi da paesi ad alta fiscalità verso altri a fiscalità più bassa e, quindi, allocare profitti presso
questi ultimi. I principali svantaggi di tali manovre fiscali elusive, consistono nella perdita di entrate fiscali per i governi nazionali che cercano di arginarle con una potestà impositiva
diretta. Uno degli aspetti che maggiormente impedisce l'allineamento dei sistemi fiscali europei riguarda la "concorrenza fiscale" tra i diversi paesi UE, in base alla quale le varie
giurisdizioni utilizzano la leva fiscale per incoraggiare gli imprenditori e le persone fisiche a localizzarsi nei loro paesi. Mentre tale politica porta indubbiamente dei vantaggi ai paesi con
una bassa fiscalità, di converso determina una perdita di entrate tributarie per quelli con una pressione fiscale più alta. Relativamente alle imposte indirette, l'IVA è l'imposta che ha avuto
maggiori sviluppi in tema di armonizzazione fiscale. Tra il 1967 e il 1977 sono state emanate 6 direttive riguardanti l'adozione di una imposta sul valore aggiunto a livello comunitario.
Ciononostante, perfino con l'IVA l'armonizzazione ha dimostrato di essere di difficile attuazione. Nel 1991, la UE introdusse un sistema IVA transitorio la cui entrata in vigore si è avuta nel
1993. Tale sistema provvisorio doveva essere sostituito da uno definitivo sin dal 1997. Tuttavia, non si è riusciti ad arrivare ad un accordo in sede europea per cui il regime transitorio resta
tuttora in vigore. In un primo momento, la Commissione europea ritenne che gli stati membri si trovassero in una situazione di estrema difficoltà nel controllare la corretta applicazione
dell'IVA e che gli affari erano ostacolati dall'assenza di un sistema di imposizione comune. Successivamente, la stessa predispose un programma per un nuovo sistema IVA mediante l'armonizzazione
delle aliquote e l'applicazione di un'aliquota minima del 15%. Sempre secondo la Commissione, i passi successivi da compiere consistevano nell'avvicinare il più possibile le aliquote IVA
esistenti nei vari stati membri e l'armonizzazione della base imponibile e delle esenzioni.
Tuttavia, la strada da percorrere è ancora molto lunga prima che quelle proposte diventino completamente operative. Attualmente, tra i vari stati membri dell'UE, l'aliquota IVA media varia dal
15 al 25%. Il mercato comune europeo doveva essere creato dagli stati membri mediante l'abolizione degli ostacoli alla libera circolazione dei beni, delle persone, dei servizi e dei capitali e
la concorrenza nel mercato interno non doveva essere stravolta da iniziative prese dai singoli stati membri. Chiaramente, sistemi fiscali diversi possono portare ad una distorsione dei
comportamenti all'interno di un mercato comune. La principale ragione economica posta alla base dell'armonizzazione fiscale in Europa riguarda la produzione e il consumo dei beni che deve
effettuarsi sulla base di costi e benefici economici reali e non essere eccessivamente influenzata da considerazioni di natura fiscale. L'esistenza di diversi sistemi fiscali all'interno della
UE costituisce un concreto ostacolo al libero commercio. Per tale ragione, in alcuni casi, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha proceduto alla disapplicazione della normativa fiscale
di uno stato membro ogni qualvolta vi sia stata una discriminazione tra soggetti residenti e non residenti o quando tale normativa fiscale sia stata d'ostacolo alla libera circolazione dei beni,
dei capitali e alla libertà di stabilimento.
É indubbio che un minimo di armonizzazione possa portare dei benefici economici all'interno del mercato comune europeo. Tuttavia, il lento e frammentario progresso verso una politica fiscale
comune, nell'ultima metà del secolo, indica chiaramente che vi sono ancora molte difficoltà da superare. Sarebbe, pertanto, auspicabile che si arrivasse almeno alla creazione di un modello
fiscale di tipo federalista il quale permetterebbe un'armonizzazione di alcune imposte a livello europeo mentre altre sarebbero regolate da ciascuno stato membro in corrispondenza di ogni
specifica esigenza. Infine, è da ricordare che l'imminente ingresso di 10 nuovi paesi nella Unione Europea, comporterà inevitabilmente un'analisi più approfondita circa l'idoneità delle imposte
che dovranno essere regolate a livello comunitario o di ciascuno stato membro. Attualmente, l'IVA sembra essere in prima fila come "imposta europea", mentre le imposte dirette sono lasciate
ancora all'ampia discrezionalità dei singoli governi. Fino a quando la UE non si porrà chiari obiettivi di armonizzazione fiscale mediante una rivisitazione completa dei sistemi tributari di
ciascuno stato membro, l'armonizzazione fiscale europea continuerà a restare soltanto un buon proposito senza diventare mai una concreta realtà.
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