|
I tempi per una revisione complessiva della disciplina delle procedure concorsuali sono certamente maturi. È comunemente avvertita, infatti, dagli operatori economici e dal mondo delle imprese,
prima ancora che dai giuristi, l'inefficienza e l'inadeguatezza dell'attuale sistema concorsuale.
La normativa del 1942 (la cosiddetta legge fallimentare) non appare più idonea a regolamentare le situazioni di crisi e d'insolvenza nelle quali può venire a trovarsi una qualsiasi impresa.
Attualmente, secondo i dati Istat, la durata media di un fallimento in Italia è di circa sei anni. Un lasso di tempo oggettivamente troppo lungo che, come tale produce l'unico risultato di
vanificare le aspettative di tutte le categorie interessate: creditori, organi della procedura e lo stesso fallito. A tale proposito persino la Corte Europea dei diritti dell'Uomo aveva
evidenziato la necessità di garantire al fallito il diritto ad un'equa durata della procedura concorsuale a proprio carico. Spesso, inoltre, le procedure concorsuali risultano del tutto inutili,
come nel caso in cui l'attivo sia totalmente inesistente (caso frequente nella pratica) traducendosi, pertanto, in procedimenti posti in essere soltanto per mero obbligo di legge, i cui costi -
in termini di risorse umane e materiali - conferiscono al sistema fallimentare, in tali casi, una connotazione di assoluta antieconomicità.
Tali problematiche, del resto, sono attualmente alla primaria attenzione degli organi istituzionali del paese. Con il D.I. 28 novembre 2001 è stata istituita, presso l'ufficio legislativo del
Ministero della Giustizia, una commissione per l'elaborazione di principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge-delega al Governo, relativo all'emanazione della nuova legge
fallimentare.
La citata commissione parlamentare, presieduta dall'avvocato Sandro Trevisanato, sta stringendo i tempi per consegnare entro fine anno il testo della legge delega. L'obiettivo annunciato della
nuova riforma è principalmente quello di sostituire le attuali procedure (fallimento, concordato preventivo, amministrazione controllata e liquidazione coatta amministrativa), introducendo una
procedura unitaria d'insolvenza a fasi successive: quella di crisi destinata, ove possibile, al risanamento dell'impresa da attuarsi entro due anni e quella d'insolvenza propriamente detta, da
esperirsi in caso di insuccesso della prima.
Presupposto della procedura di crisi non è più la temporanea difficoltà, come nell'amministrazione controllata, e neppure lo stato d'insolvenza propriamente detto, bensì il pericolo
d'insolvenza, con conseguente possibilità di anticipare l'ingresso in procedura dell'impresa e garantire maggiori probabilità al tentativo di risanamento. Nel corso della procedura di crisi, la
gestione dell'impresa rimane affidata al debitore, ma sotto la vigilanza del commissario giudiziale e del giudice delegato per gli atti più rilevanti. Onere del debitore è la rappresentazione di
un piano di risanamento dell'impresa, anche mediante pagamento differito ed in percentuale dei creditori, anche privilegiati. Il piano dovrà essere verificato dal commissario giudiziale e
successivamente occorrerà la specifica approvazione da parte dei creditori. In qualsiasi momento il Tribunale potrà dichiarare la cessazione della procedura e lo stato d'insolvenza. Questa
seconda procedura, si dividerà in due fasi: la prima, definita di osservazione, avrà la durata massima di novanta giorni e sarà volta all'accertamento della reale consistenza del passivo e del
patrimonio dell'impresa, sempre nell'ottica di un possibile risanamento dell'azienda; terminata la fase di osservazione scatterà quella di attuazione del programma di risanamento oppure, in
alternativa, di liquidazione. Essendo tale l'impianto strutturale della riforma, appaiono evidenti le finalità ad essa connesse e cioè la snellezza, la flessibilità operativa, l'esigenza
d'innovare. In particolare, risulta sicuramente incentivata la figura dei dottori commercialisti, i quali costituiscono senza dubbio la figura professionale idonea ad affiancare l'impresa in
crisi o l'autorità giudiziaria, per la valutazione delle opportune strategie di risanamento, nonché per la valutazione delle singole situazioni di crisi al fine di stabilire se sussistono gli
elementi per la continuazione della procedura di risanamento ovvero si debba propendere per la fase liquidatoria d'insolvenza. Tuttavia ad un'analisi più approfondita non sfugge il rischio
d'introdurre una riforma che è tale soltanto dal punto di vista nominalistico (si chiama "procedura di crisi" ciò che oggi è amministrazione controllata e concordato preventivo e si chiama
"insolvenza" l'attuale fallimento). In tal caso la nuova procedura incontrerebbe quegli stessi limiti che, di fatto, hanno determinato il naufragio della maggior parte delle imprese sottoposte
ad amministrazione controllata.
Come spesso deprecabilmente accade, l'ammissione dell'impresa alla procedura di amministrazione controllata, ha per le aziende un impatto sul mercato radicalmente negativo, ingenerando nei terzi
un atteggiamento di sostanziale sfiducia, che si rivela drasticamente sfavorevole verso l'impresa non solo per quel che concerne l'attribuzione di nuove commesse di lavoro ma persino per il
reperimento delle forniture essenziali alla continuazione dell'attività. È risaputo, infatti, che molto spesso la burocratizzazione dell'impresa connessa all'assoggettamento alle procedure
concorsuali produce effetti devastanti sul piano delle scelte economiche e delle strategie imprenditoriali, le quali devono essere improntate a criteri di tempestività e celerità; concetti
assolutamente irrealizzabili nell'attuale realtà delle procedure concorsuali.
Appare, inoltre, indispensabile che la nuova normativa intervenga su diversi istituti della vigente legge fallimentare, razionalizzandone la struttura e realizzando quegli adattamenti resi
necessari dalle numerose pronunce della Corte costituzionale, le cui lacune sono state finora colmate da prassi giurisprudenziali non sempre uniformi.
La vigente legge fallimentare, infatti, è stata oggetto di ripetuti interventi della Corte Costituzionale, la quale, nel corso degli anni, ha dichiarato costituzionalmente illegittime numerose
disposizioni in essa contenute. Le sentenze della Consulta talvolta hanno creato lacune, che sono state colmate dalla giurisprudenza in via interpretativa, non senza oscillazioni e contrasti;
talaltra, hanno modificato il contenuto precettivo di diversi articoli. In altri casi, la Corte Costituzionale, pur senza pronunciare l'illegittimità delle disposizioni normative, ha fornito
soluzioni interpretative che hanno evidenziato la necessità di interventi del legislatore per renderle più conformi ai dettami costituzionali ed altresì più adeguate alle mutate esigenze
operative del settore.
Infine, affinché il progetto di riforma sia realmente orientato verso una radicale riduzione del carico dei tribunali, appare auspicabile l'introduzione di una soglia per i fallimenti al di
sotto della quale non venga avviata neppure la procedura d'insolvenza, risolvendo in tal modo la questione dell'antieconomicità delle procedure caratterizzate dalla scarsità o addirittura
dall'inesistenza di attivo disponibile, ovvero dall'esiguità dei debiti accertati.
torna su |