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Il
Consiglio dei Ministri ha approvato, il 17/1/2003, uno schema di decreto
legislativo (d.l.vo) per l'attuazione della direttiva n.93/104/CEE,
modificata dalla direttiva n.2000/34/CEE in materia di orario di lavoro.
Trattasi di una tematica, come a tutti noto, particolarmente scottante
ancora disciplinata, nelle sue linee fondamentali e generali, dal RDL
692/1923. Il tema non sembra aver sollecitato grande interesse da parte
degli organi di stampa, mentre la notizia e le prime analisi sono state
oggetto di attenzione da parte di riviste specializzate.
Una rapida informativa sui profili generali dello schema di d.l.vo,
insomma sullo stato dell'arte, senza entrare nel merito con
approfondimenti adeguati, soprattutto per la carenza di spazio, è
senz'altro opportuna. L'orario di lavoro, infatti, incide sulla vita delle
azienda e sulla vita dei lavoratori: intendo dire che coinvolge profili
"sensibili", economicamente e socialmente, della regolamentazione del
rapporto di lavoro; non mi sembra un caso,infatti, che il nostro
legislatore sia rimasto fermo al 1923 per quanto concerne l'impianto
generale della normativa, salvo taluni successivi interventi mirati. Un
intervento di ampia portata sulla regolamentazione dell'orario con una
revisione integrale del sistema sarà necessariamente oggetto di
approfondito dibattito. Lo schema di d.l.vo si colloca nel contesto di un
percorso avviato per effetto della necessità di adeguamento alla normativa
comunitaria, già caratterizzato da una condanna da parte della Corte di
Giustizia nel 2000, e che ha visto, come tappe fondamentali, l'art. 13
della L.196/1997, l'avviso comune sottoscritto dalle parti sociali il 12
novembre 1997, l'accordo interconfederale 12 dicembre 1997, il patto per
lo sviluppo e l'occupazione del 22 dicembre 1998, l'ormai famoso Libro
bianco, l'art.6 del disegno di legge 848/2001, il d.l.vo 335/98, il d.l.vo
532/99, l'art.22 della legge comunitaria 2001. Un percorso tormentato e
incentrato soprattutto sul settore industriale e non sulle problematiche
specifiche di settori quali il commercio, il turismo e l'agricoltura e sul
quale potrebbe incidere anche la legislazione regionale ove, come ritenuto
da qualcuno e dallo stesso Libro bianco, il nuovo testo dell'art,117,
comma 3, Cost. debba intendersi nel senso che esista una potestà
legislativa concorrente anche delle Regioni nella specifica materia.
Questioni giuridiche complesse e notevoli interessi sociali ed economici
che potranno variamente incidere sulla materia ed orientare il successivo
percorso dello schema di d.l.vo prima di giungere alla definizione della
nuova normativa, fermi restando i "paletti" imposti dalla normativa
comunitaria.
Lo schema di d.l.vo, infatti, sembra svincolato dall'accordo
interconfederale del 12 dicembre 1997 ed è piuttosto ispirato
all'attuazione della regolamentazione comunitaria.
Esso detta taluni principi minimi di tutela salvaguardando, peraltro, il
ruolo della contrattazione collettiva alla quale sono fatti ampi rinvii
onde consentire un adeguamento della regolamentazione dell'orario alle
peculiari caratteristiche dei diversi settori produttivi. Il principio non
derogabile è quella della durata settimanale del normale orario di lavoro,
fissato in 40 ore settimanali. Lo schema prevede, altresì, una definizione
di orario di lavoro che sembra superare il concetto di lavoro effettivo
sancito dall'art.3 R.D.L. n.692/1923. L'orario di lavoro, infatti, è
«qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del
datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue
funzioni». Si supera, inoltre, un'annosa questione in quanto si chiarisce
definitivamente che l'unico limite dell'orario, oltre il quale è
computabile il lavoro straordinario, è il limite settimanale e non quello
giornaliero. Si tratta di un profilo della flessibilità dell'orario, la
cui regolamentazione, peraltro, è demandata alla contrattazione
collettiva.
Sono tuttavia previsti alcuni limiti alla flessibilità entro i quali la
stessa contrattazione collettiva deve muoversi. Innanzitutto, si tratta di
una novità rispetto alla regolamentazione previgente in Italia, è sancito
il principio della necessaria fruizione da parte del lavoratore di un
periodo giornaliero di riposo continuativo di 11 ore consecutive. Inoltre
la durata media dell'orario di lavoro non può superare le 48 ore nell'arco
di 7 giorni, ivi comprese le ore di lavoro straordinario.
La durata media dell'orario di lavoro, poi, deve essere calcolata con
riferimento ad un periodo non superiore a 4 mesi, con facoltà della
contrattazione collettiva di elevare questo periodo di riferimento a 6 e a
12 mesi ove sussistano ragioni obbiettive di carattere tecnico produttivo
ed organizzativo. Queste ragioni dovranno essere chiaramente specificate
dalla stessa contrattazione, la quale dunque dovrà, in buona sostanza,
giustificare la sua scelta. Ove siffatta norma dovesse essere approvata,
evidentemente si porrà il problema del controllo da parte del Giudice (se
formale o sostanziale e di merito) e degli effetti di una ipotetica
pronunzia di invalidità della clausola contrattuale, che, a prima vista,
dovrebbe comportare l'applicazione del regime legale. In assenza di
contrattazione collettiva prestazioni di lavoro straordinario potranno
essere richieste solo previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore
entro un massimo di 250 ore annuali. Lo schema di d.l.vo regolamenta anche
le pause, i riposi, le ferie e il lavoro notturno. Del riposo giornaliero
si è già detto, al quale vanno aggiunti il diritto ad una pausa dopo 6 ore
di lavoro ed il diritto al riposo settimanale, di regola in coincidenza
con la domenica salvo deroghe per particolari lavori o specifiche
attività. Il periodo annuale di ferie è determinato in 4 settimane. Il
lavoro notturno, poi, va effettuato nel limite di una media di 8 ore
nell'arco di 24 ore, salvo diverse previsioni dei contratti collettivi,
anche aziendali, che potranno ampliare il periodo di riferimento entro cui
calcolare il limite sopra detto. Come accennavo, sono numerosi e
particolarmente ampi i rinvii alla contrattazione collettiva, anche di
secondo livello. Quest'ultima, però, dovrà rispettare le regole fissate
dagli accordi nazionali. Un profilo di novità va individuato nella
previsione della possibilità di intervento del Ministero del lavoro e
delle Politiche Sociali in mancanza di disciplina collettiva.
Il Ministero, infatti, su richiesta delle organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative, ovvero delle Associazioni di
categoria dei datori di lavoro firmatarie dei contratti collettivi potrà,
con decreto, sancire deroghe che avrebbero dovuto essere previste dai
contratti collettivi, ove siano giustificate dalle particolari
caratteristiche dell'attività lavorativa. In sostanza sembra che il
legislatore, pur riconoscendo il ruolo e l'autonomia della contrattazione
collettiva, non ha inteso riconoscerle una competenza esclusiva anche se
occorrerà, poi, valutare l'ambito dell'intervento ministeriale, e cioè se
esso sia circoscritto alla sola mancanza o inesistenza della
contrattazione collettiva ovvero se l'intervento ministeriale sia
ammissibile anche nei casi in cui l'accordo manchi sullo specifico profilo
relativo all'orario di lavoro. Problema complesso che si intreccia con le
vicende della contrattazione collettiva e della stessa fase di
negoziazione.
Per quanto concerne, poi, i contratti collettivi vigenti essi dovrebbero
mantenere efficacia sino alla loro scadenza e, ove già scaduti, fino al
31.12.2004. Mi sono limitato a taluni aspetti significativi e ad alcuni
spunti di riflessione, la tematica, però, è innegabilmente complessa e
meritevole di ben più adeguati approfondimenti.
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