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L’ argomento trattato può apparire, a prima vista, privo di interesse generale e molto limitato nell'applicazione. Al
contrario, come si cercherà di dimostrare, potrebbe diventare, anche in considerazione della iper produzione legislativa connessa all'attività di impresa, un serio ostacolo alla libera
iniziativa. L'occasione di discussione nasce da una recente sentenza della Cassazione (n. 1984 dell'11 febbraio 2003), con la quale è stato ritenuto legittimo il rifiuto del Conservatore del
Registro delle Imprese di iscrivere una ditta individuale motivato sulla base di una precedente condanna emessa all'esito di un procedimento penale per bancarotta fraudolenta, conclusosi con
sentenza di patteggiamento, ex art. 444 e ss. cpp, stante l'equiparazione, operata ex art. 445 comma 1 cpp, tra la sentenza di patteggiamento e la sentenza di condanna. In sostanza per
comprendere e delimitare la problematica esaminata occorre fare qualche considerazione preliminare. Come è noto con la riforma della Pubblica Amministrazione sancita dal Testo Unico della
documentazione amministrativa (DPR 28 dicembre 2000 n.445) è ormai prassi costante ed accettata richiedere documenti come il passaporto, fare dichiarazioni di inizio attività per settori per i
quali occorre un'autorizzazione di polizia e per molte altre situazioni limitandosi, ai sensi degli articoli 46 e 47 del precitato T.U. o ad una dichiarazione sostitutiva di certificazioni della
Pubblica Amministrazione o ad atti sostitutivi di notorietà con i quali, fra l'altro, si dichiara la sussistenza di tutti i requisiti di legge ed in particolare la mancanza di sentenze di
condanna. Sarà, poi, la Pubblica Amministrazione a verificare quanto dichiarato con le ovvie conseguenze in caso di falso. Il punto dolens è costituito appunto dalla dichiarazione relativa alle
condanne subite. Sono in molti infatti a ritenere che un procedimento penale conclusosi con sentenza di patteggiamento non costituisca una sentenza di condanna con l'ovvia conseguenza di
dichiarazione negativa e successiva denuncia per mendacio. Naturalmente quando si esamina una simile problematica occorre considerare che il rischio di incappare in una situazione del genere è
molto più ampio di quanto si possa pensare.
Soprattutto in considerazione del fatto che la congerie di legislazione vigente in chiave penalistica in tutti i settori che attengono all'esercizio dell'impresa (sicurezza, materia
previdenziale, fisco, diritto del lavoro, diritto societario, etc.) porta spesso il singolo imprenditore in situazioni nelle quali, di fronte alla possibilità di scegliere un processo lungo,
pieno di insidie e di rischi, preferisce chiudere con una sentenza con la quale, patteggiando la pena, si ottiene la sospensione e la non menzione. Casi come questo sono molto più frequenti di
quanto si possa immaginare e, ad onor del vero, bisogna dare atto alla Pubblica Amministrazione di essere un poco più elastica e di procedere alle opportune valutazioni attinenti la propria
sfera di competenza con una ampia discrezionalità verificando caso per caso, a prescindere dalle sentenze di condanna e/o di patteggiamento la sussistenza dei requisiti morali. Il problema,
però, è reale e la sentenza citata in apertura lo ripropone in tutta la sua drammaticità. La Cassazione, infatti, ha ritenuto, in estrema sintesi, che la sentenza di patteggiamento ha il
medesimo effetto ostativo, per quanto attiene all'iscrizione nel Registro delle Imprese, di una sentenza di condanna ai fini del diniego. Senza addentrarsi nelle motivazioni della sentenza
innescando una analisi approfondita in termini giuridici della vicenda, occorre, invece soffermarsi sugli aspetti pratici e sulle conseguenze del predetto indirizzo molto rigido della Suprema
Corte. Il punto sul quale, tuttavia, occorre fare chiarezza e che, sotto un profilo filosofico-giuridico, non è stato pienamente recepito è che la sentenza cosiddetta di patteggiamento non nasce
dall'effettivo accertamento della colpevolezza dell'imputato ma da una sorta di trattativa alla fine della quale la pena del reato contestato viene sostanzialmente concordata privilegiando
quindi l'aspetto negoziale del problema. E ciò, in termini concreti vuol sostanzialmente dire che, spesso, si accetta il patteggiamento pur non riconoscendo la propria colpevolezza,
esclusivamente per evitare rischi e problemi maggiori. Sino ad oggi la giurisprudenza della Cassazione era stata più elastica ed anche l'orientamento della Corte Costituzionale appariva non
sempre univoco. Con tale ultima sentenza si sbatte la porta in faccia ad una interpretazione meno rigida restringendo le possibilità di apertura che sembravano ultimamente emergere soprattutto
da parte della Pubblica Amministrazione che tendeva a valutare in modo ampiamente discrezionale la singola posizione verificando la sussistenza del requisito morale in misura molto libera. Con
l'affermazione di un indirizzo di chiusura il rischio evidente è quello di una ovvia, maggiore durezza nel giudizio attese anche le eventuali conseguenze che un comportamento diverso potrebbe
portare. Appare, quindi, inevitabile che o le Sezioni Unite della Cassazione o la stessa Corte Costituzionale pronuncino una parola definitiva sull'argomento stante l'importanza dello stesso
nell'attuale contesto socio-economico. Va, infatti ribadito, che il rischio che l'imprenditore subisca un procedimento penale nell'esercizio delle proprie funzioni è oggi altissimo per i motivi
già accennati all'inizio del presente articolo e che l'eventuale scelta del patteggiamento nasce, quasi sempre, da motivazioni diverse rispetto al riconoscimento della colpevolezza. Se, però, da
tale scelta possono derivare conseguenze irreparabili e definitive, sarà allora necessario un oggettivo ripensamento su tutta la materia per non bloccare nuovamente un sistema che, sia pure
faticosamente, sembrava avviato sulla strada di una maggiore elasticità. In sostanza una sentenza con la quale è stata patteggiata una pena non può bollare a vita una persona ed impedire alla
stessa di riprendere l'attività salvo, ovviamente, i casi in cui la gravità dei fatti appaia talmente rilevante da far superare ogni remora.
Con il buon senso si dovrebbe valutare la singola posizione stabilendo di volta in volta se sussistano elementi di gravità tali da impedire, come nel caso in esame, l'iscrizione nel registro
delle imprese. Tanto perché se è vero, come è, che il reato di bancarotta fraudolenta è un reato grave, è altrettanto vero che lo stesso è conseguenza diretta ed automatica della dichiarazione
di fallimento ed, in genere, viene contestato automaticamente a prescindere dall'importanza e rilevanza del fatto in sé sotto il profilo economico: spesso, in casi del genere sia arriva al
patteggiamento solo e soltanto perché, sempre per restare nell'ambito dell'esempio citato, una legislazione obsoleta impedisce una valutazione obiettiva dei fatti portando quindi ad accettare il
male minore.
In definitiva appaiono maturi i tempi per una inversione di rotta sotto il profilo culturale nel senso che o si tende a sostituire sempre di più, nell'ambito delle attività imprenditoriali, alle
condanne penali sanzioni economiche rilevanti, soprattutto nei casi in cui non vi sia allarme sociale oppure si dica una parola definitiva sulla problematica esaminata, al fine di dare chiarezza
a chiunque si possa trovare in una situazione del genere.
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