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La Corte di Giustizia dell'Unione Europea si è pronunziata sul ricorso proposto dal Governo italiano avverso la decisione della Commissione 11 maggio 1999, concernente l'incompatibilità della normativa italiana in tema di contratti di formazione e lavoro con la normativa
comunitaria.
Giova rammentare che la decisione impugnata dal Governo italiano prevedeva la incompatibilità con il mercato comune della normativa sui contratti di formazione e lavoro nei limiti in cui essi non soddisfacevano due condizioni:
- la creazione di nuovi posti di lavoro nell'impresa beneficiaria a favore di lavoratori che non hanno ancora trovato un impiego o che hanno perso l'impiego precedente;
- l'assunzione di lavoratori che incontrano difficoltà specifica ad inserirsi o a reinserirsi nel mercato del lavoro (i giovani con meno di 25 anni, i laureati fino a 29 anni compresi, i disoccupati da almeno un anno).
La Commissione ha messo in discussione anche il profilo della trasformazione dei contratti di formazione e lavoro in contratti a tempo indeterminato, al cui verificarsi la legislazione italiana connette delle specifiche agevolazioni. Tali aiuti, infatti, sono compatibili con il mercato comune laddove «rispettino la condizione della creazione netta di posti di lavoro».
Inoltre essa aveva anche statuito che lo Stato italiano avrebbe dovuto adottare tutti i provvedimenti necessari per recuperare gli "aiuti" che non soddisfano i requisiti innanzi esposti.
Le somme da recuperare, infine, debbono essere maggiorate degli interessi che decorrono «dalla data in cui sono stati messi a disposizione dei beneficiari fino a quella del loro recupero effettivo». Tali interessi, poi, debbono essere calcolati «sulla base del tasso di riferimento utilizzato per il calcolo dell'equivalente sovvenzione nel quadro degli aiuti a finalità regionali». Non tutti i
contratti di formazione e lavoro sono dunque in discussione. Sono compatibili, infatti, con il mercato comune i C.F.L. stipulati con lavoratori che incontrano difficoltà specifiche ad inserirsi o a reinserirsi nel mercato del lavoro, (i giovani con meno 25 anni, i giovani laureati fino a 29 anni ed i disoccupati di lunga durata con più di un anno di disoccupazione) ovvero quelli destinati
alla creazione di nuovi posti.
La Commissione, poi, è stata particolarmente chiara nell'affermare che le regole debbono essere uniformi su tutto il territorio nazionale, a meno che non si tratti di creazione di nuovi posti di lavoro «nelle piccole e medie imprese e nelle regioni ammissibili agli aiuti a finalità regionali» e nell'illustrare il concetto di creazione netta di posti aggiuntivi, che va intesa nel senso di
posti di lavoro che non esistevano in precedenza, essendo un tal caso sufficiente che «il posto di lavoro sia divenuto vacante a seguito di una partenza spontanea e non di un licenziamento».
È facile dunque rendersi conto che la decisione della Commissione costituisce una pesante critica alla normativa italiana in materia di contratti di formazione ed impone azioni di recupero delle somme che costituiscono aiuti incompatibili con il mercato comune, con la possibilità, dunque, di sopravvenienze passive per le imprese.
Il Governo italiano si è rivolto alla Corte di Giustizia per ottenere l'annullamento della intera decisione della Commissione nonché, in via subordinata, quanto meno l'annullamento di essa nella parte in cui impone l'azione di recupero delle somme.
La soccombenza è stata totale in quanto la Corte di Giustizia, con la sentenza 7 marzo 2002 ha rigettato integralmente il ricorso del Governo italiano confermando sostanzialmente la decisione della Commissione in ogni sua parte.
La motivazione presenta un contenuto molto articolato, riferito più alle imprese che ai datori di lavoro in genere, sul quale ci si limita a brevi cenni non essendo questa la sede per una più approfondita analisi.
Qui é solo opportuno rammentare che, secondo la Corte di Giustizia, innanzitutto il carattere sociale degli interventi non costituisce elemento di per se sufficiente ad escludere la sussistenza dell'aiuto vietato dall'articolo 87, n.1, del Trattato Commissione Europea «se tale misura è diretta ad esentare parzialmente tali imprese dagli oneri pecuniari derivanti dalla normale applicazione
del sistema generale di previdenza sociale, senza che questo esonero sia giustificato dalla natura o dalla struttura di tale sistema».
La Corte ha dunque distinto gli aiuti destinati all'incremento dell'occupazione ovvero a particolari categorie di lavoratori, dagli aiuti al mantenimento dell'occupazione. Questi ultimi , ritenuti simili agli aiuti al funzionamento dell'impresa, «sono in principio vietati e possono essere autorizzati solo in casi eccezionali e a regioni che soddisfano taluni specifici criteri».
Gli "aiuti", poi, debbono avere specifiche caratteristiche, e cioè devono essere decrescenti e limitati nel tempo.
Il profilo più preoccupante per le imprese è dato dal fatto che la Corte di Giustizia ha ritenuto la necessità da parte dello Stato membro di procedere al recupero delle somme.
Tale recupero costituisce la logica conseguenza dell'accertamento dell'illegittimità dell'aiuto e della sua incompatibilità con il mercato comune, in quanto, come si sostiene, «mira al ripristino della situazione precedente».
La sentenza della Corte di Giustizia apre dunque un nuovo fronte per le imprese in quanto si porrà il problema del rimborso contributivo e dei relativi interessi per i contratti di formazione e lavoro e per i contratti di lavoro a tempo indeterminato a seguito di trasformazione di un C.F.L., che non rientrano tra gli aiuti ritenuti ammissibili.
Evidentemente la decisione della Corte di Giustizia non incide sulla legittimità del contratto di formazione ma solo sul profilo del regime contributivo. La Corte peraltro riconosce il diritto del imprenditore beneficiario «di invocare circostanze eccezionali sulle quali abbia potuto fondare il proprio affidamento circa la regolarità dell'aiuto e di opporsi alla sua ripetizione».
In pratica si riconosce alle singole imprese la possibilità di opporsi alla restituzione dell'indebito e si riconosce la competenza del Giudice nazionale di valutare, caso per caso, le "circostanze eccezionali" che hanno fondato l'affidamento del beneficiario «dopo aver proposto alla Corte, se necessario, questioni pregiudiziali di interpretazione».
Si porrà dunque il problema della individuazione della nozione di "circostanze eccezionali", idonee a giustificare il rifiuto del beneficiario a restituire l'aiuto indebito. Sotto tale aspetto non potrà rilevare la semplice buona fede e la convinzione di aver applicato la normativa statuale, in quanto la Corte ha considerato le "circostanze eccezionali", senza ulteriori specificazioni, come
una sorta di elemento aggiuntivo.
Un insegnamento, per il momento, è sicuro: in avvenire, prima di fruire di un aiuto previsto da una legge dello Stato, occorrerà autonomamente valutare la compatibilità con la normativa comunitaria, onde evitare di correre il rischio di dover restituire gli aiuti fruiti.
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