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L’imposizione
sulle imprese costituisce materia estremamente complessa, ed è anche per
tale motivo che non esistono opinioni univoche su come dovrebbero essere
tassate le imprese. Non meraviglia, allora, se nel nostro Paese ad una
riforma fiscale ancora in corso di completamento se ne sovrapponga una
nuova, ispirata a linee guida e principi fondanti affatto diversi.
Con questo intervento e gli altri che seguiranno, si prova ad avviare un
primo raffronto tra il sistema vigente e quello che verrà, muovendo dalla
situazione italiana nella quale si è inserita la riforma Visco.
La posizione deviante dell'Italia all'atto dell'introduzione della riforma
Visco
Riconosciuto che la mancanza di opinioni univoche su come tassare le
imprese dipende anche dall'estrema complessità della materia, va subito
aggiunto che vi sono, però, buoni motivi per ritenere che la relativa
normativa dovrebbe essere il più possibile neutrale, evitando, perciò, di
interferire con le decisioni delle imprese stesse. Al contrario,
l'esperienza concreta è stata caratterizzata, pressoché in tutti i Paesi
industrializzati, da un'evoluzione estremamente disordinata della
legislazione, essendosi ovunque affiancate alle norme ordinarie del
sistema tributario specifiche normative introdotte per i più diversi
scopi; e tra questi, preminente quello di aumentare il prelievo a favore
dello Stato. L'effetto dell'elevato livello raggiunto dal prelievo
tributario nei vari Paesi è stato quello di generare, per un verso, una
diffusa e crescente insoddisfazione; e, per altro, una particolare
attenzione per i contenuti di efficienza, di equità e di trasparenza,
nonché per il grado di semplicità dei sistemi tributari vigenti. Ma,
mentre negli altri Paesi considerazioni di efficienza e la consapevolezza
degli effetti disincentivanti di aliquote elevate hanno spinto, sin dalla
metà degli anni '80, ad una riduzione delle aliquote legali d'imposta e ad
un allargamento delle basi imponibili, in Italia si è proceduto ancora per
un decennio in direzione opposta, indebolendo ancor di più il sistema di
imposizione delle imprese, accettuandone i potenziali effetti
disincentivanti e ponendo così seri vincoli allo sviluppo. Ed infatti,
nello stesso periodo, dal 1985 al 1996, nel quale gli altri Paesi europei
abbassavano le loro aliquote, in Italia i tassi di imposta sui redditi
societari aumentavano di ben sette punti percentuali, passando dal 46,37%
al 53,20%. Aggiungendo, poi, il peso dei tributi minori si perveniva ad
un'aliquota complessiva ampiamente superiore al 60%, che non aveva uguali
nei Paesi dell'Unione. E tale posizione di svantaggio già con riferimento
alle sole aliquote nominali, si rafforzava se si fossero raffrontate le
aliquote effettive, rendendo con ciò particolarmente fertile il terreno di
coltura di distorsioni e disincentivazioni.
Ne risultavano particolarmente amplificate le interferenze che il sistema
esercitava:
a) sulla localizzazione internazionale degli investimenti;
b) sulla scelta delle fonti di finanziamento;
c) sulla localizzazione degli utili d'impresa;
d) sulle politiche di distribuzione degli utili.
Su tali interferenze conviene soffermarsi un momento almeno, per
comprendere con chiarezza le scelte di principio sin qui fatte ed avere a
disposizione elementi di valutazione circa il fisco che verrà.
a) Certamente il processo decisionale che guida le imprese
nell'effettuazione degli investimenti è estremamente complesso, sicché non
è per nulla agevole valutare gli effetti esercitati dal fattore imposte su
questa importante componente della domanda aggregata. Ancora meno agevole
è allora la valutazione della misura in cui un sistema tributario come
quello adottato in Italia in quegli anni, confrontato con quello di altri
Paesi, incentivasse o disincentivasse gli investimenti all'interno del
Paese rispetto a quelli all'estero, tanto se effettuati da imprese
residenti che da imprese estere. Nonostante tali difficoltà, è possibile
affermare che il sistema impositivo vigente in Italia non era affatto
favorevole all'investimento interno poiché poneva un cuneo di imposta
sugli investimenti più elevato di quello posto dai sistemi tributari
vigenti in altri Paesi.
b) La penalizzazione degli investimenti interni si attenuava, però,
sensibilmente se gli stessi fossero stati finanziati con debito, invece
che con capitale proprio. E ciò perché alla deducibilità degli interessi
passivi non si accompagnava, nella determinazione del reddito d'impresa,
un'analoga deducibilità del costo dei finanziamenti effettuati con
capitale di rischio ovvero misura equivalente.
La questione era, ed è, di grande importanza per il nostro Paese, in
considerazione soprattutto di due spiccate peculiarità del sistema
produttivo nazionale, e cioè: una struttura costituita in larga misura da
imprese di piccole e piccolissime dimensioni ed una forte propensione,
anche da parte delle imprese maggiori, all'indebitamento. Caratteristiche
queste, che, se non avevano ostacolato l'imporsi di un modello italiano di
successo, a seguito dell'evoluzione dei mercati e delle tecnologie e delle
conseguenti esigenze di ragionare in termini dimensionali diversi e
certamente più ampi, ormai mostravano tutti i propri limiti. Lo sviluppo
trova, infatti, il propellente ideale nel capitale di rischio e tale
principio, pur valido in assoluto, diventa imprescindibile in presenza di
situazioni nelle quali gli investimenti aziendali assumono sempre più
spesso natura immateriale e la varietà ambientale impone alle imprese un
elevato grado di elasticità finanziaria che può essere garantito solo da
un elevato livello di capitalizzazione. Nonostante le caratteristiche
proprie dell'apparato produttivo italiano e le necessità dimensionali
imposte dalla competizione internazionale, il sistema di tassazione
adottato in Italia non solo avvantaggiava l'investimento finanziato con
debito, ma era, tra i sistemi vigenti nei vari Paesi, quello che offriva
il sussidio più elevato, tassando il patrimonio netto; consentendo di
dedurre gli interessi passivi e di anticipare nel tempo la deducibilità
degli ammortamenti; prevedendo a livello personale una tassazione meno
elevata per gli interessi rispetto ai dividendi.
c) L'eccessiva onerosità del sistema di tassazione vigente poteva incidere
anche sulla localizzazione di costi e ricavi, rendendo conveniente
spostare i ricavi in Paesi con aliquote più basse e a concentrare i costi
in Italia.
d) Infine, il sistema vigente avvantaggiava in non pochi casi le politiche
di alti pay out in danno di quelle di ritenzione degli utili, ponendo così
un ulteriore freno allo sviluppo.
In definitiva, il sistema tributario vigente prima della riforma Visco non
possedeva alcuna capacità attrattiva e, quel che più conta, mentre per un
verso favoriva le imprese che si finanziavano con l'indebitamento e quelle
che, operando su più Paesi, riuscivano a trasferire i ricavi in territori
a più bassa fiscalità e a concentrare i costi in Italia; per altro verso,
disincentivava sia le nuove imprese che necessitavano di sottoscrizioni di
capitali da parte dei soci, sia le imprese già mature, in grado di
finanziare i propri progetti d'investimento con utili trattenuti. Ben
gravi, allora, gli effetti penalizzanti esercitati da tale sistema sullo
sviluppo; tanto più che, a causa della mancata armonizzazione delle
normative nazionali in materia d'imposizione diretta, reale si prospettava
il rischio di una competizione fiscale che impegnasse i singoli Stati a
disegnare il prelievo in modo da massimizzare il benessere del proprio
Paese, tenuto conto delle scelte fatte da altri; a preoccuparsi di offrire
ai capitali trattamenti migliori di quelli ottenibili altrove; ad essere
capaci, in definitiva, di esibire profili di tax appeal. torna su |