1) IL RECUPERO DEI CREDITI
SOGNO ED INCUBO DELLE IMPRESE
2) TRASFERIMENTO D’AZIENDA
LA POSIZIONE DEI LAVORATORI
3) OBBLIGO DI RESA DEL CONTO GIUDIZIALE
LA NOZIONE DI AGENTE CONTABILE
4) IMPRESE E TASSAZIONE
PRIME RIFLESSIONI

 

OBBLIGO DI RESA DEL CONTO GIUDIZIALE
LA NOZIONE DI AGENTE CONTABILE
Rilevanza della natura pubblica dell’oggetto della gestione
di Giovanni Maria di Lieto Avvocato amministrativista - avv.giovannimariadilieto@albaclick.com
 

La S.T.A. s.p.a. propone regolamento di giurisdizione nel giudizio per resa di conto promosso nei suoi confronti, ai sensi degli artt. 45 del R. D. 12/7/34, n. 1214 e 39 del R. D. 13/8/33, n. 1038, dalla Procura regionale presso la Sezione Giurisdizionale per il Lazio della Corte dei Conti.
Deduce il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti per carenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi del giudizio per resa di conto.
Va ricordato che la legge di contabilità generale dello Stato (R. D. 18/11/23, n. 2440), all'art. 74, pone come principio l'obbligo di resa del conto giudiziale, in generale, con riferimento a tutti gli «agenti incaricati della riscossione delle entrate e dell'esecuzione dei pagamenti delle spese, o che ricevano somme dovute allo Stato e altre delle quali lo Stato diventa debitore, o hanno maneggio qualsiasi di denaro ovvero debito di materie».
Secondo la Procura regionale, la società riveste la qualifica di agente contabile, ai sensi dell'art. 74 del R.D. n. 2440/23 cit., in considerazione della titolarità (e conseguente maneggio di pubblico denaro) del servizio pubblico di riscossione dei proventi derivanti dalla sosta di autoveicoli su aree di proprietà del Comune di Roma.
Da qui, secondo la Procura regionale, la sussistenza dell'obbligo di resa del conto sulle somme introitate a tale titolo, nell'interesse del Comune, ai sensi dell'art. 58, co. 2, della L. n. 142/90 (oggi sostituito dall'art. 93, co. 2, D.Lgs. n. 267/2000), in base al quale «il tesoriere e ogni altro agente contabile che abbia maneggio di pubblico denaro o sia incaricato della gestione dei beni degli enti locali, nonché coloro che si ingeriscono negli incarichi attribuiti a detti agenti, devono rendere il conto della loro gestione e sono soggetti alla giurisdizione della Corte dei Conti secondo le norme e le procedure previste dalle leggi vigenti».
La ricorrente osserva che il Comune di Roma - per gestire il servizio pubblico di riscossione delle tariffe di parcheggio - non si è avvalso dello strumento previsto dall'art. 22, co. 3, lett. b, della L. n. 142/90, e pertanto non ha posto in essere il trasferimento alla società dell'esercizio di un'attività propria dell'ente, secondo lo schema della concessione. La S.T.A. rientra, invece, nella previsione dell'art. 22, co. 3, lett. e, della L. n. 142/90 (la norma consente ai Comuni di gestire i servizi pubblici a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico locale).
Con la conseguenza che essa opera, come persona giuridica privata, nell'esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con il Comune; non esercita funzioni pubbliche, né attività autoritative.
In tale contesto andrebbe inserito, secondo la ricorrente, il principio di esclusione della giurisdizione della Corte dei Conti nei confronti degli enti pubblici economici per gli atti posti in essere nell'ambito della gestione con strumenti privatistici, al di fuori da un rapporto funzionale di servizio con l'organizzazione amministrativa.
Nella fattispecie in esame, in particolare, la ricorrente non sarebbe concessionaria in nome e per conto del Comune della fase riscossiva di un tributo, ma soggetto titolare della gestione di un servizio pubblico di parcheggio i cui proventi non si inquadrano nella categoria dei tributi, costituendo il corrispettivo di un servizio.
Occupiamoci, ora, dei passaggi argomentativi seguiti dalle Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza che si commenta (n. 12367, depositata il 9 ottobre 2001) in ordine alla natura delle somme percepite a riscontro della prestazione del pubblico servizio, alla qualificabilità dell'agente contabile.
La addotta natura privata della società ricorrente (ex art. 22, co. 3, lett. e, L. n. 142/90) non determina, quale automatica conseguenza, che la stessa non possa considerarsi agente contabile, e quindi soggetta al giudizio per resa di conto.
Ed invero, «la qualità di agente contabile è assolutamente indipendente dal titolo giuridico in forza del quale il soggetto - pubblico o privato - ha maneggio del pubblico denaro. Tale titolo può infatti consistere in un atto amministrativo, in un contratto, o addirittura mancare del tutto» (la sentenza fa proprio un principio consolidato nella giurisprudenza delle Sezioni Unite: si vedano le sentenze. n. 232/99 e n. 846/74).
Le Sezioni Unite hanno più volte chiarito che è in grado di rivestire la qualifica di agente contabile qualsiasi soggetto, privato o pubblico, persona fisica o persona giuridica (ad esempio gli istituti bancari) la quale operi a mezzo dei propri dipendenti; è pacifico che il rapporto contabile non presuppone necessariamente la sussistenza del rapporto di pubblico impiego, ma può sorgere anche da una concessione amministrativa o da un contratto.
Tale concetto è stato di recente ribadito dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 400/2000, che allarga la nozione di agente contabile fino a ricomprendervi anche il soggetto che di fatto abbia maneggio di denaro pubblico «soggetto che si sia ingerito in modo continuativo nella conservazione e gestione delle risorse pubbliche ad altri affidate».
Essenziale risulta essere - sottolinea la Suprema Corte - che «in relazione al maneggio del denaro sia costituita una relazione tra ente di pertinenza ed altro soggetto, a seguito della quale la percezione del denaro avvenga, in base ad un titolo di diritto pubblico o privato, in funzione della pertinenza di tale denaro all'ente pubblico e secondo uno schema procedimentale di tipo contabile».
La qualità di agente contabile e il conseguente obbligo di resa del conto della propria gestione scaturiscono, quindi, dalla natura pubblica dell'oggetto della gestione, cioè dalla natura del denaro di cui l'agente ha avuto il maneggio.
Ora, è fuori discussione che i proventi della sosta a pagamento si pongono esclusivamente in relazione con l'occupazione del suolo pubblico, concretizzano versamenti aventi fonte e "causa" in norme di diritto pubblico e con pubbliche finalità.
Ed invero, il pagamento della sosta nei parcheggi pubblici costituisce una prestazione patrimoniale finalizzata non alla retribuzione di un servizio, ma alla tutela dell'interesse generale alla circolazione stradale e alla sua sicurezza. Le somme riscosse dai cittadini per tale "causa" costituiscono denaro pubblico, anche se la riscossione venga affidata, per contratto o anche solo in via di fatto, ad un soggetto privato (che per tale ragione assume la qualifica di agente contabile).
È indubbia la natura "pubblica" delle somme versate dai cittadini per la sosta su strada, anche in considerazione - aggiunge la Suprema Corte - delle ulteriori finalità che il legislatore persegue attraverso la gestione della sosta a pagamento.
Dispone, infatti, l'art. 7, co. 7, del codice della strada (D.Lgs. 30/4/92, n. 285) che «i proventi dei parcheggi a pagamento, in quanto spettanti agli enti proprietari della strada, sono destinati alla installazione, costruzione e gestione di parcheggi in superficie, sopraelevati o sotterranei, e al loro miglioramento, e le somme eventualmente eccedenti ad interventi per migliorare la mobilità urbana».
Sussiste, pertanto, anche un vincolo pubblicistico di destinazione delle somme alla realizzazione di opere pubbliche.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite conclude, pertanto, per la sottoposizione della società ricorrente - in relazione alla gestione dei proventi derivanti dalla sosta, a pagamento, dei veicoli - alla giurisdizione contabile della Corte dei Conti.

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