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L'immigrazione in Italia
Integrazione e Cultura

Le problematiche di un fenomeno in continua crescita
di
Andrea Funari Presidente Gruppo Giovani Imprenditori Unione Industriali Caserta
 

Nonostante l'adozione di una normativa organica che ha finalmente tratteggiato i contorni del "modello italiano" di integrazione mediante l'emanazione del Testo Unico sull'immigrazione e la vivace dinamica dei movimenti migratori che ha caratterizzato gli ultimi due decenni, la dimensione della presenza straniera in Italia resta di gran lunga inferiore a quanto si verifica negli altri maggiori partner europei, sia in termini assoluti, sia in termini percentuali rispetto alla popolazione autoctona.
Tale osservazione rimane ampiamente vera anche se si considera la quota degli irregolari, altalenante nel tempo soprattutto in relazione al succedersi dei diversi provvedimenti di regolarizzazione, ma comunque mai superiore ad un terzo della presenza complessiva. Invero, il nostro apparato statistico ha faticato non poco nell'attrezzarsi a registrare i movimenti relativi alla componente straniera della popolazione.
Ciò precisato, oggi disponiamo comunque di un complesso di dati sufficienti a descrivere il fenomeno migratorio, un fenomeno che si mostra in tutta la sua irreversibilità, che sempre più visibilmente modifica il volto delle nostre città, obbligandole ad interrogarsi sul senso del concetto di cittadinanza e che fa registrare una sempre più accentuata contrapposizione tra favorevoli e contrari. In effetti, tale fenomeno sicuramente presenta sia elementi positivi che problematici. Nella realtà produttiva soprattutto del nord-est del paese si va, infatti, configurando un peculiare modello di integrazione, la cui figura tipica è quella dell'immigrato operaio, impegnato in imprese di piccola e media dimensione, specialmente del settore metalmeccanico ed edile.
In queste realtà, che associano una situazione di dinamismo economico a processi di rapido invecchiamento della popolazione, da tempo è stato segnalato come, accanto al ruolo di copertura delle qualifiche professionali rifiutate dai locali, la presenza straniera debba adempiere ad una funzione strutturale, andando a sostituire le leve che via via, giungono all'età del pensionamento.
In termini complessivi, in un Paese che ha conosciuto negli ultimi anni un tracollo dei tassi di natalità, l'immigrazione appare destinata a sopperire alle esigenze di ricambio demografico della popolazione attiva.
E già oggi voci autorevoli, a partire da quella del Governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio, enfatizzano l'aiuto che da essa deriva per il riequilibrio del sistema pensionistico e contributivo, affetto da cronici disavanzi. Tuttavia, anche tralasciando di considerare il problema dell'economia sommersa, la questione della partecipazione degli stranieri al mercato del lavoro italiano implica una serie di risvolti problematici finora rimasti offuscati dalla semplicistica equazione "lavori abbandonati dagli italiani = lavori assunti dagli immigrati".
Basti pensare al fenomeno della dequalificazione della manodopera straniera istruita. Secondo alcune recenti indagini, infatti, circa il 70% dei soggetti ad elevata istruzione, immigrati nel nostro Paese, che a loro volta rappresentano circa un quarto della presenza straniera complessiva, è colpito da una dequalificazione professionale.
Si tratta, sostanzialmente, di soggetti che si trovano nella impossibilità di mettere a frutto le loro competenze, mancando modelli o percorsi sociali cui riferirsi per identificare le tappe di un'ascesa sociale e professionale. Quanti hanno avuto successo sono ancora troppo pochi per potere esercitare una reale influenza sugli altri.
L'ipotesi è addirittura che in Italia, contrariamente a quanto si verifica negli altri Paesi industrializzati, risulterebbe più facile il processo di integrazione degli immigrati con poca o nessuna qualifica, piuttosto che di quelli qualificati.
Resta il fatto che chi non si adatta, anche perché non disponibile a svolgere un lavoro "in nero", rischia una deriva nella devianza, vissuta come strumento per raggiungere quegli obiettivi che non si è in grado, o non si e disposti, ad ottenere con i mezzi leciti.
Il problema riguarda, al momento, una nettissima minoranza, caratterizzata da alcuni attributi che costituiscono altrettanti fattori di rischio.
La maggioranza di immigrati, invece, è rappresentata da giovani maschi, espatriati individualmente, provenienti da Paesi dell'immediata periferia europea o comunque da contesti, di tipo sia urbano che rurale, segnati da processi di degrado economico, sociale e politico. Resta il fatto che la partecipazione degli stranieri ad attività devianti costituisce un fattore determinante nell'involuzione dell'atteggiamento degli italiani verso gli stranieri, involuzione registrata da un quasi tutte le indagini sul tema.
Più precisamente, siamo passati da una fase di neutralità negli anni '70, nella quale lo straniero, per lo più studente o rifugiato, stimola una forte curiosità senza creare aspettative sociali; da una fase di inconsapevolezza, che copre la prima metà degli anni '80, durante la quale lo straniero comincia a configurarsi come un potenziale pericolo per i privilegi goduti dai cittadini; ad una fase di emergenza, che riguarda la seconda metà degli anni '80, nella quale l'immigrazione viene definita come problema sociale e come rischio per gli equilibri economici e sociali preesistenti; fino all'ultima ed attuale fase, quella dell'etichettamento, nella quale lo straniero si trasforma da problema sociale in problema di ordine pubblico, da soggetto indesiderato a soggetto socialmente pericoloso: il suo stereotipo tende a divenire il suo principale elemento definitorio facendo crescere la distanza sociale.
In sostanza, il tema dell'immigrazione straniera rischia di essere sempre più strettamente associato a quello della sicurezza urbana.
Questa preoccupazione incide profondamente sulle rappresentazioni collettive del fenomeno, giungendo a condizionare le iniziative per governarlo e tutto ciò, paradossalmente, proprio nella fase in cui si registra una stabilizzazione della presenza straniera, o di una ragguardevole quota di quest'ultima, in tanti ambiti del nostro tessuto produttivo e sociale. Nel volgere di pochi anni, dal momento in cui la società italiana ha preso consapevolezza del fenomeno, al di là delle contrapposizioni sul tipo di integrazione da promuovere, l'immigrazione è divenuta un elemento costitutivo della convivenza, in grado di incidere sul complessivo funzionamento della società ospite. I figli degli immigrati frequentano gli asili nido e le scuole, e crescono fianco a fianco degli autoctoni.
E tuttavia sembra, nel complesso, che l'attenzione sia stata e sia più diretta a cogliere le problematiche dell'emergenza, o comunque della non-normalità, alimentando una sterile contrapposizione tra lo schieramento dei pro-immigrati e lo schieramento degli ostili e tradendo l'incapacità di cogliere le implicazioni di lungo periodo di un fenomeno strutturale.
La preoccupazione di non urtare la sensibilità degli autoctoni guida le scelte in materia di programmazione degli ingressi (rimaste finora sottodimensionate non solo rispetto all'offerta potenziale, ma alla stessa domanda interna), ostacola perfino l'attivazione delle misure urgenti di governo del fenomeno (si pensi alle difficoltà incontrate per la realizzazione dei Centri di permanenza temporanea e assistenza, che pure devono servire a rendere effettive le tanto auspicate espulsioni), sospinge le amministrazioni locali a perseguire una strategia di "invisibilità" nell'offerta dei servizi.
Queste ultime, attualmente interessate da profondi cambiamenti e riforme che coinvolgono lo stesso ambito delle politiche sociali, sperimentano come la qualità dell'azione amministrativa dipende dall'efficienza interna degli apparati. Così, se è vero che l'entrata in vigore del Testo Unico sull'immigrazione ha segnato uno spartiacque rispetto al passato, appare ora sempre più evidente come le risposte ai problemi non si definiscono tanto attraverso nuove norme, quanto attraverso l'applicazione delle norme esistenti, siano o no specifiche all'immigrazione. L'esempio più evidente è rappresentato dal lavoro "nero", la cui diffusione costituisce il principale fattore di attrazione dell'immigrazione irregolare, nonché il principale fattore di inefficacia, nel medio-lungo periodo, dei provvedimenti di sanatoria.
Questi ultimi, infatti, sono uno degli aspetti maggiormente censurabili della produzione normativa e si auspica vengano finalmente rimpiazzati da incisive iniziative che contrastino il riprodursi dei fenomeni di irregolarità.
In conclusione, l'immigrazione in Italia continua a profilarsi con un doppio volto, quello della normalizzazione e delle risposte virtuose, e quello dell'emergenza che perdura e che si alimenta di eventi drammatici, come lo stillicidio di profughi che approdano sulle nostre coste.
Due volti che non possono essere confusi e sovrapposti, che reclamano strategie e politiche con orizzonti temporali differenti ma, soprattutto, lo sviluppo di una capacità amministrativa nel gestire in modo efficace ed efficiente quelli che appaiono fenomeni e problemi ineludibili, attraverso l'emanazione di regole certe e soprattutto applicate con rigore.
Ai nostri confini esistono esempi autorevoli, come quelli fornitidalla Francia e dall'Inghilterra, paesi nei quali, nonostante la storica presenza di marcati nazionalismi, abbiamo potuto assistere ad una encomiabile integrazione socio-lavorativa.
Certo è che tale capacità amministrativa potrà maturare nella misura in cui sarà diffusa la consapevolezza di promuovere non solo il concetto politico di "governo dell'immigrazione", ma altresì una "cultura dell'immigrazione", intesa come integrazione non solo lavorativa, ma anche civile, sociale, religiosa e sanitaria, che di tale concetto rappresentano ingredienti essenziali.
 

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