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Orazio
Maria Petracca
Politologo -
Professore di scienza dell’amministrazione e dottrina dello Stato -
Università degli Studi di Salerno
Editorialista de “Il Sole 24 Ore” - Consigliere politico del Presidente di
Confindustria - petracca@confindustria.it
Abbiamo ripercorso assieme al politologo Orazio Maria Petracca le tappe
fondamentali che hanno caratterizzato i cambiamenti del Sistema
confindustriale.
Come va inquadrata nella storia di Confindustria la riforma del sistema
associativo che è stata approvata alla fine dell'anno scorso?
Quando fu eletto presidente di Confindustria, nella primavera del 2000,
Antonio D'Amato presentò un programma che si basava su due pilastri. Da
una parte, la questione della competitività: cioè restituire la nostro
paese la capacità di competere sulla scena internazionale, attuando tutta
una serie di riforme economiche e sociali (Welfare State, mercato del
lavoro, fisco, eccetera).
Dall'altra, la questione della rappresentanza industriale: cioè una
riforma del sistema associativo che rendesse Confindustria più
rappresentativa e al tempo stesso più efficiente ed efficace nei rapporti
con le altri parti sociali e le forze politiche.
Dal dopoguerra ad oggi, Confindustria ha conosciuto tre grandi riforme, a
parte alcuni aggiustamenti di minore portata. La prima fu quella che entrò
in vigore nel 1970 con la presidenza di Renato Lombardi. Alla base c'era
il "rapporto Pirelli", così denominato in quanto era il frutto dei lavori
di una commissione presieduta da Leopoldo Pirelli, che aveva ripensato a
fondo non solo le strutture ma la cultura stessa del sistema
confindustriale, mobilitando a questo scopo una scelta schiera di
intellettuali, raccolti intorno alla Fondazione Agnelli e al Centro
Einaudi di Torino. Con quella riforma, che segnò una grande svolta, gli
industriali prendevano finalmente atto che lo sviluppo economico, di cui
loro stessi erano stati e rimanevano i principali protagonisti, aveva
cambiato profondamente gli scenari della società italiana e del sistema
politico.
Quella che nell'immediato dopoguerra era ancora una piccola società rurale
era diventata una grande potenza industriale. Si era modificata
radicalmente la fisionomia della stratificazione sociale.
Centinaia di migliaia di contadini erano diventati operai. Molte persone
nate e cresciute nel Sud si erano trasferite nel Nord Italia. Erano nate e
continuavano a nascere continuamente nuove imprese in nuovi settori
produttivi. Dopo gli anni del miracolo economico, erano gli anni del
"neo-capitalismo", come si diceva allora. In questo contesto Confindustria
non poteva più limitarsi a mantenere un atteggiamento meramente difensivo.
Finiti i tempi in cui si trattava di difendere una cittadella assediata,
adesso Confindustria rappresentava un settore vitale della società
italiana che coinvolgeva il destino di milioni e milioni di persone. Non
poteva più limitarsi a difendere specifici interessi di categoria ma
doveva saper promuovere una sua concezione dell'interesse generale. Poi,
con le turbolenze politiche degli anni settanta la vicenda delle lotte
politiche e sociali prese in Italia tutt'altra piega: ma è una storia
sulla quale non possiamo soffermarci qui.
La seconda Riforma su quali elementi si fondava?
Vent'anni più tardi, sulle soglie degli anni '90, ci fu la seconda riforma
del sistema confindustriale con una commissione presieduta da Emilio
Mazzoleni, ex-presidente dell'Unione Industriali di Bergamo, in cui ebbe
un ruolo fondamentale lo stesso D'Amato, che all'epoca era presidente dei
Giovani imprenditori.
La riforma Mazzoleni fu soprattutto caratterizzata dall'impegno di fare
del sistema associativo un sistema "a rete", cercando di valorizzare in
questa specie di network il ruolo delle Federazioni regionali che erano
state create dalla riforma Pirelli.
Fu un tentativo riuscito poi solo in parte. Alle Federazioni regionali fu
attribuito sulla carta un ruolo più ampio e significativo: ma in larga
misura tutto ciò rimase appunto sulla carta, senza tradursi nel concreto
della vita associativa. Si rivelò un ostacolo difficile da superare il
problema dei nuovi equilibri da stabilire nella gestione dei rapporti di
potere tra le Federazioni regionali e le Associazioni territoriali e di
categoria. Questo perché, essendo le federazioni regionali un istanza di
secondo grado e vivendo solo di risorse devolute loro dalle associazioni
territoriali, accadeva che l'Associazione provinciale più forte si
arroccasse in una posizione dominante rispetto alla sua federazione di
riferimento.
Anche recentemente si è posta l'attenzione al ruolo ed alle competenze
delle "Confindustrie Regionali". In che modo?
L'ultima riforma promossa dalla presidenza D'Amato e sviluppata dal Vice
presidente Nicola Tognana ha uno dei suoi aspetti qualificanti proprio nel
rilancio delle Federazioni regionali. E oggi, probabilmente, lo sforzo di
riorganizzare su questa base la struttura della rappresentanza industriale
può avere maggior successo, rispetto al passato, in quanto si lega
strettamente a quella riforma in senso federalista del sistema
politico-istituzionale che è attualmente in corso d'opera.
Nella nuova riforma di Confindustria la distribuzione delle competenze tra
i diversi livelli associativi è modellata proprio sulla logica del
federalismo come ha cominciato a delinearsi con il nuovo Titolo V della
Costituzione.
C'è sempre un elemento di rischio quando si riorganizza su base federale
un sistema di governo, ma la riforma di Confindustria, nella misura in cui
tende a favorire la flessibilità del sistema e la sua capacità di
sviluppare sinergie, non dovrebbe lasciare spazio ai rischi.
Quali sono gli altri aspetti che caratterizzano la nuova organizzazione
del sistema confindustriale?
Un altro aspetto qualificante della nuova riforma, anch'esso di grande
rilevanza, è l'attenzione che viene riservata al profilo europeo di quei
temi, problemi, dilemmi da cui dipendono lo sviluppo del nostro sistema
economico e la sua capacità di competere nell'arena della globalizzazione.
Molte decisioni vengono oggi prese a livello europeo, e non più nazionale,
per cui è indispensabile saper agire a quel livello per evitare di dover
subire passivamente regole e direttive che magari corrispondono agli
interessi di altri paesi.
Ma non si tratta solo di questo. È necessario cambiare il nostro
atteggiamento nei confronti dell'Europa. Siamo abituati a considerarla
essenzialmente come una fonte di vincoli e prescrizioni da rispettare
rigorosamente. Ciò era inevitabile fin quando lo imponeva lo stato
disastroso della nostra finanza pubblica: ed è stata una spinta oltremodo
utile, preziosa, per dare inizio a quel processo di risanamento che
peraltro è una lunga strada ancora in gran parte da precorrere.
Ma la direzione giusta l'abbiamo imboccata: e adesso dobbiamo assumere un
ruolo attivo nello spingere sulla via dello sviluppo e della competitività
la stessa Europa, afflitta per tanti versi da problemi di rigidità del
tutto simili ai nostri.
Tutti i paesi appartenenti all'Unione Europea hanno il problema di
recuperare competitività. È questo il nodo cruciale. Durante gli anni '80
era diffusa la convinzione che l'Europa fosse all'avanguardia, per
capacità di sviluppo, anche rispetto agli Stati Uniti. Dagli anni '90 in
poi, invece, si è registrata un'inversione di tendenza che ha visto gli
USA incrementare notevolmente il loro livello di competitività, rispetto
alle nazioni europee, grazie soprattutto alla loro capacità di innovazione
tecnologica e di produttività. La situazione odierna vede l'Europa
continentale in una condizione di subalternità rispetto agli Stati Uniti
e, sull'altro versante, in una situazione di pericolo nei confronti delle
nuove economie emergenti.
Quali gli interventi necessari per il dopo riforma?
Le riforme sono veramente tali solo se e quando riescono a entrare nei
meccanismi organizzativi e producono così un effettivo cambiamento. Se le
Regioni, come prevede il nuovo Titolo V della Costituzione, diventeranno
realmente nuovi livelli di governo, centri di programmazione delle
autonomie locali, allora all'interno del sistema associativo
confindustriale la riforma D'Amato-Tognana realizzerà i suoi obiettivi.
Un discorso analogo va fatto per quanto riguarda la dimensione europea,
come è evidente in questa fase di difficoltà nei rapporti tra i paesi che
compongono l'attuale Unione, compresi quelli in via di accettazione.
Insomma, detto così alla buona, in poche parole, la riforma di
Confindustria è ormai cosa fatta, sul piano formale. Ma tutto dipende da
come sapranno attuarla le forze vive del sistema associativo, le
organizzazioni di base e gli industriali che gli dedicano il loro tempo e
le loro energie.
Tutto quello che si può dire, per ora, è che il nuovo statuto costituisce
un buon punto di partenza.
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