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2) CONFINDUSTRIA CAMBIA CON IL PAESE
DALLA COMMISSIONE PIRELLI A D’AMATO
   

 

a cura di Antonio Paravia
L’evoluzione del sistema industriale italiano raccontata da Orazio Maria Petracca
CONFINDUSTRIA CAMBIA CON IL PAESE
DALLA COMMISSIONE PIRELLI A D’AMATO
Le tre Riforme del Sistema associativo dal dopoguerra ad oggi
di Vito Salerno & Francesca Zamparelli
 

Orazio Maria Petracca
Politologo - Professore di scienza dell’amministrazione e dottrina dello Stato - Università degli Studi di Salerno
Editorialista de “Il Sole 24 Ore” - Consigliere politico del Presidente di Confindustria - petracca@confindustria.it


Abbiamo ripercorso assieme al politologo Orazio Maria Petracca le tappe fondamentali che hanno caratterizzato i cambiamenti del Sistema confindustriale.

Come va inquadrata nella storia di Confindustria la riforma del sistema associativo che è stata approvata alla fine dell'anno scorso?

Quando fu eletto presidente di Confindustria, nella primavera del 2000, Antonio D'Amato presentò un programma che si basava su due pilastri. Da una parte, la questione della competitività: cioè restituire la nostro paese la capacità di competere sulla scena internazionale, attuando tutta una serie di riforme economiche e sociali (Welfare State, mercato del lavoro, fisco, eccetera).
Dall'altra, la questione della rappresentanza industriale: cioè una riforma del sistema associativo che rendesse Confindustria più rappresentativa e al tempo stesso più efficiente ed efficace nei rapporti con le altri parti sociali e le forze politiche.
Dal dopoguerra ad oggi, Confindustria ha conosciuto tre grandi riforme, a parte alcuni aggiustamenti di minore portata. La prima fu quella che entrò in vigore nel 1970 con la presidenza di Renato Lombardi. Alla base c'era il "rapporto Pirelli", così denominato in quanto era il frutto dei lavori di una commissione presieduta da Leopoldo Pirelli, che aveva ripensato a fondo non solo le strutture ma la cultura stessa del sistema confindustriale, mobilitando a questo scopo una scelta schiera di intellettuali, raccolti intorno alla Fondazione Agnelli e al Centro Einaudi di Torino. Con quella riforma, che segnò una grande svolta, gli industriali prendevano finalmente atto che lo sviluppo economico, di cui loro stessi erano stati e rimanevano i principali protagonisti, aveva cambiato profondamente gli scenari della società italiana e del sistema politico.
Quella che nell'immediato dopoguerra era ancora una piccola società rurale era diventata una grande potenza industriale. Si era modificata radicalmente la fisionomia della stratificazione sociale.
Centinaia di migliaia di contadini erano diventati operai. Molte persone nate e cresciute nel Sud si erano trasferite nel Nord Italia. Erano nate e continuavano a nascere continuamente nuove imprese in nuovi settori produttivi. Dopo gli anni del miracolo economico, erano gli anni del "neo-capitalismo", come si diceva allora. In questo contesto Confindustria non poteva più limitarsi a mantenere un atteggiamento meramente difensivo.
Finiti i tempi in cui si trattava di difendere una cittadella assediata, adesso Confindustria rappresentava un settore vitale della società italiana che coinvolgeva il destino di milioni e milioni di persone. Non poteva più limitarsi a difendere specifici interessi di categoria ma doveva saper promuovere una sua concezione dell'interesse generale. Poi, con le turbolenze politiche degli anni settanta la vicenda delle lotte politiche e sociali prese in Italia tutt'altra piega: ma è una storia sulla quale non possiamo soffermarci qui.

La seconda Riforma su quali elementi si fondava?

Vent'anni più tardi, sulle soglie degli anni '90, ci fu la seconda riforma del sistema confindustriale con una commissione presieduta da Emilio Mazzoleni, ex-presidente dell'Unione Industriali di Bergamo, in cui ebbe un ruolo fondamentale lo stesso D'Amato, che all'epoca era presidente dei Giovani imprenditori.
La riforma Mazzoleni fu soprattutto caratterizzata dall'impegno di fare del sistema associativo un sistema "a rete", cercando di valorizzare in questa specie di network il ruolo delle Federazioni regionali che erano state create dalla riforma Pirelli.
Fu un tentativo riuscito poi solo in parte. Alle Federazioni regionali fu attribuito sulla carta un ruolo più ampio e significativo: ma in larga misura tutto ciò rimase appunto sulla carta, senza tradursi nel concreto della vita associativa. Si rivelò un ostacolo difficile da superare il problema dei nuovi equilibri da stabilire nella gestione dei rapporti di potere tra le Federazioni regionali e le Associazioni territoriali e di categoria. Questo perché, essendo le federazioni regionali un istanza di secondo grado e vivendo solo di risorse devolute loro dalle associazioni territoriali, accadeva che l'Associazione provinciale più forte si arroccasse in una posizione dominante rispetto alla sua federazione di riferimento.

Anche recentemente si è posta l'attenzione al ruolo ed alle competenze delle "Confindustrie Regionali". In che modo?

L'ultima riforma promossa dalla presidenza D'Amato e sviluppata dal Vice presidente Nicola Tognana ha uno dei suoi aspetti qualificanti proprio nel rilancio delle Federazioni regionali. E oggi, probabilmente, lo sforzo di riorganizzare su questa base la struttura della rappresentanza industriale può avere maggior successo, rispetto al passato, in quanto si lega strettamente a quella riforma in senso federalista del sistema politico-istituzionale che è attualmente in corso d'opera.
Nella nuova riforma di Confindustria la distribuzione delle competenze tra i diversi livelli associativi è modellata proprio sulla logica del federalismo come ha cominciato a delinearsi con il nuovo Titolo V della Costituzione.
C'è sempre un elemento di rischio quando si riorganizza su base federale un sistema di governo, ma la riforma di Confindustria, nella misura in cui tende a favorire la flessibilità del sistema e la sua capacità di sviluppare sinergie, non dovrebbe lasciare spazio ai rischi.

Quali sono gli altri aspetti che caratterizzano la nuova organizzazione del sistema confindustriale?

Un altro aspetto qualificante della nuova riforma, anch'esso di grande rilevanza, è l'attenzione che viene riservata al profilo europeo di quei temi, problemi, dilemmi da cui dipendono lo sviluppo del nostro sistema economico e la sua capacità di competere nell'arena della globalizzazione. Molte decisioni vengono oggi prese a livello europeo, e non più nazionale, per cui è indispensabile saper agire a quel livello per evitare di dover subire passivamente regole e direttive che magari corrispondono agli interessi di altri paesi.
Ma non si tratta solo di questo. È necessario cambiare il nostro atteggiamento nei confronti dell'Europa. Siamo abituati a considerarla essenzialmente come una fonte di vincoli e prescrizioni da rispettare rigorosamente. Ciò era inevitabile fin quando lo imponeva lo stato disastroso della nostra finanza pubblica: ed è stata una spinta oltremodo utile, preziosa, per dare inizio a quel processo di risanamento che peraltro è una lunga strada ancora in gran parte da precorrere.
Ma la direzione giusta l'abbiamo imboccata: e adesso dobbiamo assumere un ruolo attivo nello spingere sulla via dello sviluppo e della competitività la stessa Europa, afflitta per tanti versi da problemi di rigidità del tutto simili ai nostri.
Tutti i paesi appartenenti all'Unione Europea hanno il problema di recuperare competitività. È questo il nodo cruciale. Durante gli anni '80 era diffusa la convinzione che l'Europa fosse all'avanguardia, per capacità di sviluppo, anche rispetto agli Stati Uniti. Dagli anni '90 in poi, invece, si è registrata un'inversione di tendenza che ha visto gli USA incrementare notevolmente il loro livello di competitività, rispetto alle nazioni europee, grazie soprattutto alla loro capacità di innovazione tecnologica e di produttività. La situazione odierna vede l'Europa continentale in una condizione di subalternità rispetto agli Stati Uniti e, sull'altro versante, in una situazione di pericolo nei confronti delle nuove economie emergenti.

Quali gli interventi necessari per il dopo riforma?

Le riforme sono veramente tali solo se e quando riescono a entrare nei meccanismi organizzativi e producono così un effettivo cambiamento. Se le Regioni, come prevede il nuovo Titolo V della Costituzione, diventeranno realmente nuovi livelli di governo, centri di programmazione delle autonomie locali, allora all'interno del sistema associativo confindustriale la riforma D'Amato-Tognana realizzerà i suoi obiettivi.
Un discorso analogo va fatto per quanto riguarda la dimensione europea, come è evidente in questa fase di difficoltà nei rapporti tra i paesi che compongono l'attuale Unione, compresi quelli in via di accettazione. Insomma, detto così alla buona, in poche parole, la riforma di Confindustria è ormai cosa fatta, sul piano formale. Ma tutto dipende da come sapranno attuarla le forze vive del sistema associativo, le organizzazioni di base e gli industriali che gli dedicano il loro tempo e le loro energie.
Tutto quello che si può dire, per ora, è che il nuovo statuto costituisce un buon punto di partenza. 

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